7.4.08

Recensione: The bird people in China

Regia: Takashi Miike
Sceneggiatura: Makoto Shiina, Masa Nakamura
Cast: Motoki Masahiro, Ishibashi Renji, Mako

Fra le caratteristiche che fanno di Takashi Miike un grande cineasta c'è senz'altro l'imprevedibilità...

Una delle qualità più impressionanti dell'autore di Ichi the killer è infatti quella di saper spaziare fra i generi più differenti non solo all'interno della sua stessa filmografia ma anche nel contesto di un singola produzione. Se è comunque vero che nella maggioranza dei casi, quando ci si avvicina a un suo lungometraggio, ci si aspetta qualcosa di estremo, è altrettanto vero che nel caso del film in oggetto ci troviamo di fronte a un prodotto molto lontano dagli stilemi a cui il regista nipponico ci ha abituati. Siamo distanti dalla visionarietà di Gozu, dall'ironia di di Full Metal Yakuza o dallo sperimentalismo di Audition. The bird people in China è un film delicato, fatto di grandi suggestioni, pacato, riflessivo e, soprattutto, poco violento. Per farla breve è un film che non ti aspetti da un regista come Miike e tuttavia, almeno per chi scrive, è uno dei suoi lavori meglio riusciti.
Fondamentalmente ci troviamo di fronte a un prodotto che inizia come road movie ma la cui destinazione viene raggiunta a metà del film quando a una minore, e voluta, dinamicità si contrappone un interessante riflessione e una concentrazione di tematiche estremamente attuali e di grande profondità: Wada (Motoki Masahiro) è impiegato in un azienda giapponese e viene improvvisamente inviato dai suoi superiori in missione in un luogo sperduto fra le montagne della Cina più rurale, per verificare la bontà di un giacimento di giada che, nel caso fosse di buona qualità, costituirebbe un grande affare per l'azienda. Appena arrivato in Cina, tuttavia, viene immediatamente e imprevedibilmente affiancato dallo yakuza Ujiie (Ishibashi Renji) determinato ad assicurarsi che la scoperta del giacimento possa consentire all'azienda di saldare i debiti ancora aperti con la sua organizzazione. Assieme alla simpatica guida Shen (Mako) i due intraprenderanno un viaggio molto movimentato che fra pericoli, imprevisti e situazioni fuori dall'ordinario li porterà fino al villaggio attiguo al giacimento, un villaggio dove il tempo si è fermato e dove l'urbanizzazione di un paese in forte sviluppo come la Cina non è ancora riuscita a cancellare quel profondo legame che esiste fra l'uomo e la natura. In questo luogo fuori dal mondo, dove è ambientata la seconda parte del film, i protagonisti faranno scoperte sensazionali, impareranno ad apprezzare uno stile di vita completamente diverso a quello a cui erano abituati, intraprenderanno un nuovo e diverso viaggio dentro se stessi alla ricerca delle proprie origini, matureranno e cambieranno completamente il loro approccio alla vita stessa. E nel frattempo cercheranno di svelare le origini di una leggenda che ruota attorno a degli affascinanti uomini volanti e a una ragazza dalle origini misteriose che senza rendersene conto canta una canzone in lingua inglese.
Ciò che stupisce maggiormente per quanto riguarda l'estetica di questo lungometraggio è la differenza sostanziale che intercorre tra le frenetiche riprese cittadine nella parte introduttiva (che a momenti ricordano lo stile di Tsukamoto) e la staticità -resa evocativa dal sapiente utilizzo del campo lungo- in tutte le scene seguenti che riprendono in maniera molto naturale gli splendidi paesaggi della Cina più nascosta. Dimostrazione questa di grande maturità artistica e coerenza concettuale da parte del regista che si discosta senza problemi dagli eccessi che lo hanno reso famoso dimostrando, se mai ce ne fosse bisogno, la sua estrema duttilità e capacità di rinnovarsi senza scendere a compromessi.
Notevole la tematica naturalista che si fa forte nella diversa reazione da parte dei due protagonisti, l'uno determinato nella sua scelta conservatrice, l'altro quasi ipocritamente deciso nell'assurda speranza di sfruttare pur preservando. Ma è nello splendido finale, amaro ma ottimista, quando la voce fuori campo di Wada ci racconta da un lontano futuro come andranno a finire le cose e assistiamo al coronamento del sogno di un Ujiie ormai traballante a causa dell'età avanzata, che tutta la forza del messaggio esplode nella sua disarmante semplicità: forse non possiamo davvero cambiare e cambiarci, non tutti almeno, ma a volte vale davvero la pena di rimettersi in gioco, di mettere in discussione le proprie scelte, di essere coerenti con se stessi e di mettere da parte l'orgoglio e il materialismo per rendersi conto che i valori più veri, quelli che ci rendono davvero speciali, sono anche quelli che ci possono rendere davvero felici e in pace con noi stessi; e che è giusto, anzi necessario, lottare per conservare quel poco (o quel tanto) che ancora rimane di bello in un mondo abbruttito da un umanità che sembra allontanarsi sempre di più da quelle che sono le proprie origini.


Recensione a cura di Nosf

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