Regia: Pen-Ek Ratanaruang
Sceneggiatura: Prabda Yoon
Cast: Tadanobu Asano, Hye-jeong Kang, Eric Tsang, Ken Mitsuishi
Già grande autore col precedente Last Life in the Universe, il regista Pen-Ek Ratanaruang si riconferma ora come uno fra i cineasti tailandesi più interessanti di sempre.
E' evidente che la fotografia di Chris Doyle ha avuto un ruolo fondamentale nel dar vita alle cupe atmosfere che, forse, sono il pezzo forte del film, ma è altrettanto indubbio che il modo in cui il regista ha saputo dar movimento alle immagini, senza invadenza e con uno sguardo che sembra scavare dentro l'anima, si può a ben ragione considerare la carta vincente del lungometraggio. Così come non si può che applaudire all'interpretazione di un Asano immerso in un ruolo che gli calza davvero a pennello e che riesce a trasmettere alla perfezione un senso di disagio più che tangibile. Di grande impatto anche il resto del cast (internazionale) di cui si avvale Ratanaruang, composto dalla coreana Hye-jeong Kang (che molti ricorderanno in OldBoy), dal giapponese Mitsuishi Ken (Audition), dal cinese Eric Tsang (Infernal Affairs).
A una storia tutto sommato semplice si contrappone un sottotesto emotivo di forte intensità. Kyoji è un cuoco che pur avendo una relazione con la moglie del proprio capo accetta di assassinarla per conto del marito (forse perchè in realtà anche lui vuole sbarazzarsene). Sopraffatto dai sensi di colpa cerca di lasciarsi alle spalle la vita precedente cercando nuove motivazioni in un paese straniero grazie al sostegno del proprio mandante. Fra ambienti ostili e presenze inizialmente invisibili che sembrano seguirlo ovunque vada, quasi come se fossero un incarnazione del suo tormento, arriverà a prendere piena coscienza della situazione in cui si trova, tanto da un punto di vista materiale quanto da quello prettamente morale/psicologico. Mentre in partenza sembra di assistere a un thriller, già dopo pochi minuti l'impostazione filmica si sposta su altri lidi (poco battuti) concentrandosi sull'interiorità del protagonista, rappresentata nel caso specifico da situazioni al limite del paradossale e da una messa in scena estremamente inquietante che ricorda per molti versi il cinema di Lynch. Importante la musica, sempre presente e sussurrata, fatta di suoni raggelanti che contribuiscono a rendere stranianti anche le situazioni più comuni.
Se è vero che quello del senso di colpa e del rimorso è un tema già affrontato innumerevoli volte nel mondo del cinema, bisogna pur ammettere che è raro trovarsi di fronte ad un opera così priva di retorica come Invisible Waves. Anche e soprattutto nel finale, le intenzioni sono quelle di non abbandonarsi a classici meccanismi atti a suscitare le solite emozioni negli spettatori, non si va mai nella direzione del melò, non ci si sente mai vittime della pateticità.
Ma è in realtà nell'impostazione generale che, come già si accennava, Invisible Waves trova la propria forza e la propria ragion d'essere. Non è facile ne scontato addentrarsi in una psiche tormentata, non è immediato per lo spettatore provare empatia per un assassino e, quindi, lasciarsi coinvolgere da una pellicola che vuole mantenersi seria (nonostante l'ironia non sia del tutto assente). Pure i colpi di scena, quando presenti, non vengono -volutamente- sfruttati, perchè non rientrano negli obbiettivi del regista. Pertanto si dimostra saggia la decisione di proiettare ogni astrazione verso l'esterno, ed ecco che l'ambiente (vero protagonista del film) diventa trasfigurazione dell'inconscio, materializzazione delle sensazioni. Solo con questo concetto in mente è possibile apprezzare l'importante lavoro svolto, anche in fase di sceneggiatura, la cui semplicità non dovrebbe essere vista come un difetto ma come una scelta ben motivata dal successivo lavoro svolto in fase di regia.
Quanto detto in precedenza non dovrebbe mettere in secondo piano un'altro importante tassello che determina la riuscita di questo prodotto: i dialoghi. Potrebbe sembrare strano, perchè in un opera marcatamente surreale come questa ci si potrebbe convincere che le parole debbano lasciare il posto alle immagini. Ma non è così. Molte frasi (le più preziose) sono studiate e pensate per aprire la strada alle immagini stesse.
Del resto, anche il titolo acquista significato in alcune delle battute più belle dell'intero film: quando Kyoji si trova in viaggio sulla nave e fa la conoscenza del barman, quest'ultimo, parlando del proprio lavoro e del mare, afferma di odiare il primo ma di amare il secondo, “il mare non ha pregiudizi nei miei confronti, lo guardo e lui guarda me” dice. Ma Kyoji non può essere d'accordo, “strano, io ho l'impressione che il mare mi giudichi” risponde. Perchè la visione delle cose cambia in relazione al nostro stato interiore. Mentre chi è in pace con se stesso vede nel mare un riflesso della propria innocenza, il protagonista non può far altro che scorgervi delle onde invisibili, quelle della propria (sub)coscienza. Una coscienza macchiata e sporcata irrimediabilmente, turbata e irrequieta, come un mare apparentemente calmo in superficie ma mosso in profondità da un flusso che non può cambiare direzione, e che accompagnerà per mano Kyoji (e lo spettatore assieme) verso l'amaro e toccante finale che conclude degnamente un opera di elevato livello artistico.
27.8.08
Import: Invisible Waves
9.6.08
Import: Ritual
Regia: Hideaki Anno
Sceneggiatura: Ayako Fujitani, Hideaki Anno
Cast: Shunji Iwai, Ayako Fujitani
Film sperimentale e letteralmente stracolmo di simbolismi, Ritual è la seconda prova con attori in carne ed ossa per Hideaki Anno, il famoso creatore dell'anime cult Neon Genesis Evangelion.
Un regista (i personaggi sono tutti senza nome) ritorna al suo paese d'origine, un cupo agglomerato industriale fatto di ciminiere e tralicci dell'alta tensione. Appena arrivato incontra una ragazza stesa sui binari della ferrovia. La ragazza è strana, molto. Forse per questo il regista, che ne è potentemente affascinato, prova ad entrare nel suo mondo, un mondo creato ad hoc dalla mente della giovane donna il cui obbiettivo è erigere una barriera, o meglio un rifugio dentro il quale nascondersi, dentro il quale proteggersi da tutto ciò che può potenzialmente ferire emotivamente. La ragazza vive in un universo irreale e atemporale (ogni giorno è quello precedente al suo compleanno, ad esempio) scandito da ossessioni e rituali che trovano un parallelismo e significato rispettivamente nel passato e nel presente (ma non nel futuro che viene ripetutamente e (in)volontariamente annullato) della protagonista. Il suo passato emergerà poco a poco durante la visione e assumerà le forme di un cupo e intimo dramma familiare, un dramma che giustificherà il comportamento, spesso imprevedibile, della giovane donna di fronte all'elemento nuovo e destabilizzante costituito dal regista che diventa lentamente e inevitabilmente (nonostante un continuo, cieco ma infine inutile rifiuto) uno strumento di introspezione che la costringerà a fare i conti col proprio passato e a colmare quel vuoto siderale creatosi nel suo animo. Questa è senz'altro la prima (ma non unica), palese chiave di lettura che traspare dalla visione.
L'attrice che impersona questo complesso e affascinante personaggio è la figlia di Steven Segal (si, avete capito bene) Ayako Fujitani, autrice anche del romanzo dal quale è tratto il film, che si cimenta in un interpretazione, forse inaspettatamente, di altissimo livello. Ma non è certamente da meno il protagonista maschile, il regista che viene interpretato da un reale professionista della cinematografia nipponica moderna nella sua prima e fino ad ora unica (ma speriamo non ultima) prova da attore, Shunji Iwai (Love Letter, All About Lily Chou-Chou).
Ed è proprio affrontando la visione dal punto di vista del personaggio maschile che si evince un ulteriore (e a parere di chi scrive ancor più interessante) chiave di lettura contenuta in questa articolata opera cinematografica.
E' davvero difficile pensare che la scelta di un vero regista per questo ruolo sia frutto del semplice caso, sicuramente diventa impossibile pensarlo nel momento in cui il personaggio sullo schermo impugna una videocamera e inizia a filmare, e le immagini diventano magicamente quelle che lui stesso inizia a riprendere. Dal momento in cui questo avviene il regista (quello vero) si lancia in una riflessione filosofica sul significato del cinema stesso, sul suo rapporto con la realtà. Ed ecco che la presenza di Iwai sul set assume un significato nuovo e imprescindibile, essendo evidente che il personaggio da lui interpretato non ha nome perchè non ha bisogno di essere identificato in nessun altro che non sia Iwai stesso (e chiaramente Hideaki Anno che si rispecchia fin troppo bene nel suo connazionale).
La struttura filmica è decisamente particolare e viene scandita da un conto alla rovescia in cui i giorni di un intero mese passano fino al fatidico momento in cui il simbolico guscio della ragazza si frantumerà e la realtà entrerà prepotentemente a far parte della sua vita con tutto il dolore che ne deriva, ma anche con la speranza di un futuro più sereno. Durante la visione due voci fuori campo (una maschile e una femminile) esternano riflessioni di notevole profondità che danno maggior spessore all'intero film. La regia è molto ricercata ed efficace e si avvale in certe sequenze di un modesto utilizzo della CG che dona, in questo caso, un aspetto quasi surreale alle suddette immagini. Le musiche struggenti contribuiscono enormemente nel toccare le corde più intime dello spettatore, e il pezzo finale di Cocco che accompagna una bellissima ripresa su un cielo blu (in aperto contrasto con la cupezza generale dell'opera) chiude degnamente un prodotto cinematografico complesso e fascinoso, intenso e, sebbene non adatto a chiunque, di indubbio spessore e valore artistico.
5.6.08
Recensione: Una tomba per le lucciole
Sceneggiatura: Isao Takahata
Cast (Voci): Corrado Conforti, Perla Liberatori, Beatrice Margiotti
Anno di produzione: 1988
Titolo originale: Hotaru no haka
Il capolavoro di Isao Takahata, spesso criticato e messo in ombra per le forti tematiche trattate.
L'orrore della guerra colpisce non solo i militari di stanza al fronte, ma anche gli inermi civili, proprio come Seita, che si vede costretto a scappare al rifugio antiaereo insieme al resto della popolazione del suo villaggio prendendosi in carico sua sorella Setsuko. Costretto a separarsi dalla madre la ritroverà solo in seguito, agonizzante in un letto per via delle profonde ferite riportate.
La vedrà morire sotto i suoi occhi, ma farà di tutto per far si che la sorella non venga a conoscenza del triste evento.
Dopo un periodo di convivenza presso alcuni parenti decidono quindi di stabilirsi in una grotta, ma la malnutrizione e l’ambiente poco salubre spegneranno anche la vita della giovane Setsuko.
Seita, costretto ad una vita di stenti e di solitudine, si lascerà morire lentamente, tra l’indifferenza dei passanti.
Era il 1988 quando usciva “Tonari no Totoro” (per i nostrani “Il mio vicino Totoro”), quello che sarebbe poi diventato il simbolo del noto studio Ghibli, ma era anche l’anno in cui usciva, un po’ in sordina per via del lavoro di Miyazaki, “Hotaru no haka”, scritto e diretto da Isao Takahata basandosi su un racconto dell’autore nipponico Akiyuki Nosaka.
Senza preamboli, senza rosee descrizioni e senza alcuna remora allo spettatore viene presentata la cruda realtà.
La guerra, la seconda guerra mondiale, ha segnato duramente anche gli uomini comuni, Seita e Setsuko erano uomini comuni, così come lo erano tutti gli uomini costretti a vivere l’orrore della guerra sulla loro pelle.
Attraverso lo spirito del giovane Seita ripercorriamo la triste vicenda che lo ha portato a perdere l’intera famiglia e la certezza in ideali e valori, come il possente impero Nipponico, che riteneva inossidabili.
Takahata trasforma in anime l’ossessione tipica dei cineasti del periodo, realizzando “Una tomba per le lucciole”, cupissimo e straziante, con momenti di rara poesia e di insostenibile crudezza per un cartone animato, da sempre simbolo di spensieratezza e serenità (ma è proprio grazie allo studio Ghibli se tale immagine è stata ampiamente sdoganata).
Il tratto stilistico non differisce molto da quello delle produzioni di Miyazaki, tuttavia è nei contenuti che Takahata percorre un percorso radicalmente opposto, se il primo è infatti alla costante ricerca di situazioni oniriche, immaginifiche, che prendano le distanze dalla realtà (pur trattando la realtà), il secondo (e ne aveva già dato prova durante la realizzazione di diverse serie televisive, dalla giovane Heidi alla fulva Anna) è maggiormente legato al “mondo terreno” e preferisce alle immagini suggestive immagini vere e forti, prova ne è l’ottima ricostruzione, non solo storica (la produzione si è avvalsa infatti della collaborazione dello storico Hideaki Anno) quando anche delle situazioni e del clima tipico del periodo, dai modi di fare della goffa Setsuko che lentamente sfila gli abiti per fare il bagno nel mare alla triste usanza di vendere gli oggetti cari e gli abiti dei defunti per ottenere una manciata di riso in più.
Takahata non lascia spazio alcuno all’immaginazione, se non nella breve apparizione delle lucciole, faro nella notte e motivo di compiacimento per la piccola Setsuko, limitandosi a seguire l’inevitabile incedere dei due fratellini verso un abisso di dolore e disperazione.
Il finale è un momento di rara poesia, esaltato anche da un’espressività perfetta dei volti e dalle evocative note di Michio Mamiya, e nonostante l’amarezza e il dispiacere provati, lascia comunque un senso di pace.
Imperdibile capolavoro dell’animazione giapponese, ovunque al cinema da noi direttamente in home video.
Recensione a cura di Svengali
20.5.08
Recensione: Haze - Il muro
Regia: Shinya Tsukamoto
Sceneggiatura: Shinya Tsukamoto
Cast: Shinya Tsukamoto, Kaori Fujii
Questa, in sintesi, la prima parte di Haze, mediometraggio (49' circa) di Shinya Tsukamoto che oltre a regista è anche attore, montatore e direttore della fotografia.
Pur essendo uno dei prodotti più recenti partoriti dalla fertile creatività del cineasta nipponico Haze è in realtà più vicino a quelli che sono i suoi lavori d'esordio. Come in Tetsuo, anche in Haze lo spettatore è tenuto all'oscuro di quelli che sono i retroscena che potrebbero dare una spiegazione a molti dei quesiti che restano in sospeso durante e dopo la visione. Del protagonista non ci è dato di conoscere praticamente nulla, nemmeno il nome, ed è solo nelle bellissime sequenze finali che ci viene offerta la possibilità di costruire una chiave interpretativa.
La direzione in cui si spinge l'arte di Tsukamoto, in questo caso, non è quella di un cinema che vuole trasmettere concetti sintetizzabili in un semplice costrutto narrativo. Piuttosto, l'obbiettivo (pienamente raggiunto) di Haze è quello di usare l'immagine per rappresentare una situazione che consenta di rispecchiare degli stati interiori legati alla propria (sub)coscienza e individuabili nelle paure più inconfessate dell'individuo. E' nelle poche ma importanti frasi e in alcune fondamentali scene surreali che possiamo dare un senso a tutto ciò che avviene nel film, che possiamo identificare un simbolismo quasi sussurrato ma imprescindibile e facilmente identificabile dallo spettatore più attento. E' sicuramente questa la chiave di lettura che permette di apprezzare appieno le qualità di questo lavoro estremamente personale dell'autore di Vital.
Ma le qualità di Haze sono in realtà molteplici e indicative della strada verso la quale si può spingere (e si è spinta) buona parte del cinema horror (ma non solo) contemporaneo. In particolare stupisce l'efficacia che assume l'uso del digitale nelle mani di un artista come Tsukamoto: l'inquadratura si muove con una disinvoltura sorprendente, si avvicina al volto del protagonista, ne rivela ogni sfumatura, serpeggia nel buio e negli spazi stretti e dona al film una forma estetica che appare davvero nuova, fresca, diversa. Un risultato che sarebbe stato difficile raggiungere utilizzando il metodo di ripresa tradizionale. La musica e gli effetti sonori giocano inoltre un ruolo notevole nell'evidenziare l'imprevedibilità e la drammaticità “fisica” di certe situazioni che si vengono a creare durante la visione ma anche nel sottolineare i pochi dialoghi donando loro un potente sfondo emotivo. E' giusto spendere una parola anche per il Tsukamoto attore che si presta in un ruolo meno facile di quanto appaia riuscendo appieno nel trasmettere la angosce interiori, l'orrore e la disperazione. Kaori Fujii dal canto suo non è da meno, nonostante un ruolo meno enfatico dal punto di vista fisico rispetto a quello di Tsukamoto.
Già da tempo disponibile anche per l'home video italiano, Haze non solo è una visione obbligatoria per ogni fan del regista e per ogni appassionato di cinema giapponese contemporaneo, ma è anche un prodotto consigliato a ogni cinefilo che si rispetti e che voglia confrontarsi con un horror diverso dal solito, profondo e appagante, significativo, sperimentale, innovativo.
22.4.08
Recensione: The happiness of the Katakuris
Regia: Takashi Miike
Sceneggiatura: Ai Kennedy, Kikumi Yamagishi
Cast: Kenji Sawada, Keiko Matsuzaka, Shinji Takeda
La suddetta sequenza animata, infatti, non si integra in alcun modo col resto dell'intero lungometraggio, salvo per l'utilizzo della stessa tecnica che sostituisce in ogni aspetto i personaggi e le scenografie in alcuni successivi passaggi del film, accentuandone notevolmente la componente surrealista.
La storia raccontata, intrisa di humor nero, vede protagonista la famiglia che da il titolo al film. Un famiglia a dir poco strampalata, che ha deciso di costruire e gestire una pensione in un luogo fuori dal mondo, ai piedi di un vulcano, in attesa di una strada non ancora costruita che, nella visione del capofamiglia, vedrebbe aumentare vertiginosamente la clientela. Clientela che durante il film sarà costituita da personaggi assolutamente deliranti che troveranno la morte in maniera più o meno accidentale proprio nella pensione della famiglia, che dovrà quindi essere unita nella decisione di non denunciarne la morte alle autorità e nell'occultarne i cadaveri, senza non poche difficoltà.
E' ancora la famiglia, quindi, il tema centrale attorno al quale ruota la narrazione del film (proprio come in Gozu, Kikoku o Visitor Q), tema che si rivela particolarmente caro al regista e che viene analizzato da prospettive spesso simili, ma complementari, nei sui numerosi lavori. La buona resa dei sentimenti che legano i vari componenti è manifesta grazie anche alla lodevole interpretazione del gruppo di interpreti, volti già visti in altri lavori dello stesso Miike ma anche in altri importanti prodotti cinematografici giapponesi.
Come si diceva, la storia raccontata e il modo in cui viene dato risalto a certi elementi è tipico della commedia nera, ma sono numerosissime le scene che si dissociano da questo genere e acquistano personalità propria. Oltre alle già citate parti in stop motion, infatti, troviamo all'interno del lungometraggio numerose scene cantate e ballate dall'intera famiglia e dai personaggi di contorno che nella maggior parte dei casi, pur non avendo nessun valore dal punto di vista strettamente musicale, si rivelano parecchio azzeccate e divertenti. Addirittura, la stravaganza di Miike ha modo di esprimersi in una di queste sequenze quando una voce si rivolge a noi spettatori e ci invita a cantare il pezzo successivo che è accompagnato dal testo a video come se si trattasse di una vera e propria sessione di karaoke. Che ci si cimenti o meno nell'impresa, cosa alquanto improbabile, è difficile non rimanere allibiti di fronte a una scelta che sembra prendere a pesci in faccia le regole più basilari del mezzo cinema. “Mattacchione di un Miike!” ci verrebbe spontaneo esclamare con un sorriso stampato sulla faccia, anche se da una parte ci si rende pur conto che l'intero film si fa carico di quella voglia di evadere gli schemi che è forse la caratteristica più bella del geniale autore.
Altrettanto incredibile è la naturalezza con cui si passa da segmenti puramente comici e nonsense ad altri tipici del cinema romantico o di quello horror. Eppure, nonostante tutte le caratteristiche che fanno di The Happiness of the Katakuris un prodotto altamente innovativo e sperimentale, ci troviamo di fronte a un film che può essere visionato senza timore da individui con abitudini, esigenze ed età decisamente eterogenee in quanto scevro dalla violenza sfrenata o dalle estreme scene di sesso presenti nella maggior parte della filmografia di Miike e guarnito di un ottimismo (anche nelle parti teoricamente drammatiche) che pervade ogni singolo minuto di pellicola. Ottimismo che che assume una connotazione paradossale nel volutamente irrealistico finale che vuole mostrarci realizzato il desiderio della famiglia Katakuris, un desiderio che trascende ogni cosa, persino la morte, nella testarda ricerca di quello a cui, a ben vedere, ogni essere umano sano di mente ambisce: la felicità e la pace all'interno del proprio nucleo famigliare.
E se è vero che durante la visione fra gli spettatori si susseguono le emozioni più disparate, quello che alla fine probabilmente rimarrà impresso sul volto di ogni individuo che si lasci coinvolgere dalle (dis)avventure dei una delle famiglie più improbabili della cinematografia sarà, semplicemente e piacevolmente, stupore.
15.4.08
Recensione: Su-Ki-Da
Regia e sceneggiatura: Hiroshi Ishikawa
Cast: Aoi Miyazaki, Hidetoshi Nishijima, Hiromi Nagasaku, Eita
Il film è diviso in due parti distinte. La prima, in cui i due protagonisti adolescenti vivono la loro vita (solo apparentemente spensierata), in una monotonia quasi irreale e in una società totalmente distaccata, sospesi fuori dal tempo. La seconda, temporalmente situata ben diciassette anni dopo, nella quale li ritroviamo ormai adulti e immersi in un ambiente ancora distante ma nella sua urbanizzazione più opprimente e asettico, che trova sfogo soltanto nel momento in cui i due riescono a dar parola alle loro emozioni. Nel mezzo il nulla, in tutti i sensi. Perchè in quei diciassette anni che non ci vengono mostrati non accade praticamente niente, a dimostrare che quel niente che ci sembrava così costante anche nei momenti più intensi della pellicola era in realtà carico di un sottotesto emotivo potentissimo, forse non immediatamente individuabile ma in realtà unico mezzo per comprendere e giustamente apprezzare questo interessante film.
Dietro l'apparente semplicità della narrazione, c'è infatti un importante lavoro da parte del regista (anche sceneggiatore) nel cercare di rappresentare in immagini quelle piccole cose e quei gesti soffusi, quasi impercettibili, che identificano l'individuo, non solo in fase adolescenziale ma in ogni momento della vita, e che ne esplicitano gli aspetti più puri, i sentimenti più veri, anche se a volte repressi. Ed è sicuramente nella repressione dei sentimenti e nell'incomunicabilità che possiamo individuare una delle tematiche più interessanti che ci vengono messe di fronte, i protagonisti vivono le loro vite senza trovare il coraggio di venire al dunque e di essere realmente se stessi, e questo atteggiamento li allontana sempre di più e li distacca completamente nel primo dei due momenti realmente drammatici della storia, che pure avviene fuori campo.
Di certo gli attori contribuiscono attivamente alla buona riuscita della pellicola, dalla dolcissima Aoi Miyazaki (Heavenly Forest, Nana) all'impeccabile Nishijima Hidetoshi (Dolls, Casshern), che riescono in maniera ottimale a rendere rispettivamente la spensieratezza solo apparente dell'adolescente che non trova la forza per esprimere se stesso e dell'adulto che vive nel rimpianto delle proprie scelte.
Scremato del superfluo e ridotto all'essenziale, con l'obbiettivo preciso di sottolineare degli stati emotivi difficilmente rappresentabili senza retorica, Su-Ki-Da riesce benissimo nel proprio intento: quello di raccontare qualcosa di difficilmente sintetizzabile a parole, per il sommo piacere di chiunque ne sappia cogliere le impercettibili sfumature.
9.4.08
Recensione: Nobody knows
Regia: Koreeda Hirokazu
Sceneggiatura: Koreeda Hirokazu
Cast: Yagira Yûya, Kitaura Ayu, Kimura Hiei, Shimizu Momoko, Kan Hanae
E' davvero impossibile non rimanere costernati e allibiti di fronte alla storia di un infanzia rubata e di un assenza dal peso di un macigno nell'esistenza dei quattro giovani protagonisti del film. Al centro della vicenda ci sono, appunto, i quattro figli di una donna senza marito, due maschi e due femmine, i quali si trovano costretti ad una vita di sacrificio per dare la parvenza che la madre abbia sotto le sue cure un unico figlio (il più grande) e che possa quindi permettersi di lasciare a lui le faccende di casa durante i suoi giorni di assenza. Tutto questo permetterebbe anche, nella visione assurda della donna, di ottenere la possibilità di vivere in un appartamento altrimenti precluso a una famiglia così numerosa e con bambini tanto piccoli. Ed ecco quindi come veniamo introdotti alla visione, con una donna e un figlio che trasportano grosse e pesanti valigie in un nuovo appartamento dalle quali improvvisamente sbucano gli altri bambini che si troveranno costretti a vivere reclusi in quella casa, concettualmente simile ad una prigione. Escluso il figlio maggiore Akira, che può saltuariamente uscire per sbrigare le faccende fondamentali (ma che si trova sulle spalle una responsabilità enorme quando la madre è assente), per gli altri protagonisti praticamente non esiste vita sociale. Niente scuola, niente aria fresca, niente amici. Nemmeno il piccolo terrazzo è accessibile a loro, che rischierebbero di farsi notare dai vicini mandando all'aria i piani della madre. Ma la mancanza che pesa maggiormente nelle giornate di queste giovani vite è quella dei genitori, del padre che non c'è e soprattutto della madre che potrebbe esserci ma che non fa nulla per adempiere quelli che sono i suoi obblighi morali nei loro confronti. E anche se a tratti, soprattutto nella prima parte, la serenità e la gioia di vivere, sostenute dai sogni e dalla speranza, sembrano non sparire dal volto dei giovani attori, in realtà la tragedia incombe, la si respira e la si teme mentre l'esistenza dei protagonisti degrada sempre di più durante l'ultima, anomala, lunghissima assenza del genitore. E quando accade, l'inquadratura che desiste dall'immortalare la tragedia non fa altro che riflettere la naturale tendenza di noi spettatori a non voler accettare l'inevitabile e tristissimo finale che ci stringe il cuore in una morsa d'acciaio.
Molto realistico e commovente, fra i più apprezzati lavori di Koreeda, Nobody Knows è un film dalle qualità davvero eccelse che una volta visto difficilmente potrà essere dimenticato.
8.4.08
Recensione: Wonderful Days
Sceneggiatura: Michael Keyes, Moon-saeng Kim
Lungometraggio di animazione coreano di grande impatto e oggetto di enormi sforzi produttivi, Wonderful Days è un film che dal punto di vista visivo non lascia spazio a dubbi in merito alla sua bontà.
Tecnicamente infatti è davvero difficile muovere critiche nei confronti dell'enorme team che ha dato vita ad un impianto estetico di ottima fattura. I creatori si sono avvalsi essenzialmente di tre tecniche distinte: il “vecchio” 2d per i personaggi, modellini per gli ambienti, animazione in CG per le scene molto movimentate e gli effetti speciali. Ma è grazie a quella che è stata definita “multimation” (un procedimento atto ad unire tecniche così diverse) che è stato possibile amalgamare il tutto arrivando di fatto a creare il vero punto di forza dei questo prodotto per l'intrattenimento.
Dove invece risiedono i piccoli problemi della pellicola è nella sceneggiatura vera e propria e nella scarsa originalità della quasi totalità degli elementi. La storia raccontata infatti ricorda da vicino numerose produzioni del vicino Giappone, una storia di ambientalismo e di sete di potere, di ideali e di rispetto per la natura che in quanto a tematiche richiama alla mente i lavori più importanti del grande maestro Miyazaki. Ma come si diceva anche gli elementi stessi che la compongono sembrano uscire direttamente da qualche serie animata del passato. I personaggi, ad esempio, sono estremamente stereotipati: abbiamo il ragazzo che ha abbandonato il benessere per lottare a favore di chi soffre e che protegge un ingenuo e dolcissimo fratellino, abbiamo la ragazza che pur avendo scelto un altra strada non lo ha mai dimenticato, abbiamo il terzo incomodo a metà strada fra i buoni e i cattivi, e abbiamo il cattivone di turno assetato di potere e senza rispetto per la vita umana che non si ferma di fronte a nulla per ottenere ciò che desidera. Addirittura i mezzi di trasporto utilizzati dai protagonisti richiamano alla mente quelli di altri grandi film di animazione del passato.
Bisogna comunque ammettere che nonostante questi evidenti difetti il film si lascia guardare davvero piacevolmente. Dopotutto la storia non sarà il paradigma dell'originalità ma propone una tematica molto attuale e per molti versi toccante. I personaggi saranno un po macchiettisti ma conquistano agevolmente la nostra simpatia. Le carrellate sui panorami devastati dall'inquinamento sono molto affascinanti e le musiche fanno un ottimo lavoro nel sottolineare i momenti più lirici della pellicola. Soprattutto nel finale, nonostante qualche piccola svista di sceneggiatura, acquista un identità fortissima allontanandosi dagli stereotipi e non ricercando a tutti i costi il classico happy ending (per ostentando un certo spirito positivista), riesce a chiudere nel migliore dei modi la pellicola.
Riassumendo possiamo dire di trovarci di fronte a un progetto riuscito a metà, che di certo non entrerà nell'olimpo del genere ma che è meritevole di essere visionato da una nutrita ed eterogenea schiera fatta non solo di appassionati (e forse saranno proprio i neofiti ad apprezzarlo maggiormente).
Volendo inquadrare Wonderful Days nel contesto delle produzioni d'animazione coreane (e orientali in genere) bisogna inoltre ammettere che il valore di questa pellicola non si ferma alle sue qualità intrinseche. In realtà questo lungometraggio non ha nulla da invidiare ad anime nipponici ben più blasonati e dimostra quindi che anche in Corea ci sono i mezzi per realizzare prodotti di questo genere che possano tener testa a quelli che fono ad ora sono stati il punto di riferimento del settore. Tutto dipenderà ovviamente dal desiderio di superare i difetti elencati in questa recensione, ovvero di slegarsi da quella che è la tradizione e di ricercare un identità propria e un reale spirito di innovazione che non si fermi agli aspetti puramente tecnici ma che coinvolga soprattutto quelli artistici e concettuali.
Di certo dopo questa visione saranno molti gli appassionati che terranno gli occhi ancor meglio puntati su una nazione che promette grandi cose e che ha rivelato un enorme potenziale, probabilmente, non ancora espresso al meglio.
7.4.08
Recensione: The bird people in China
Regia: Takashi Miike
Sceneggiatura: Makoto Shiina, Masa Nakamura
Cast: Motoki Masahiro, Ishibashi Renji, Mako
Fra le caratteristiche che fanno di Takashi Miike un grande cineasta c'è senz'altro l'imprevedibilità...
Fondamentalmente ci troviamo di fronte a un prodotto che inizia come road movie ma la cui destinazione viene raggiunta a metà del film quando a una minore, e voluta, dinamicità si contrappone un interessante riflessione e una concentrazione di tematiche estremamente attuali e di grande profondità: Wada (Motoki Masahiro) è impiegato in un azienda giapponese e viene improvvisamente inviato dai suoi superiori in missione in un luogo sperduto fra le montagne della Cina più rurale, per verificare la bontà di un giacimento di giada che, nel caso fosse di buona qualità, costituirebbe un grande affare per l'azienda. Appena arrivato in Cina, tuttavia, viene immediatamente e imprevedibilmente affiancato dallo yakuza Ujiie (Ishibashi Renji) determinato ad assicurarsi che la scoperta del giacimento possa consentire all'azienda di saldare i debiti ancora aperti con la sua organizzazione. Assieme alla simpatica guida Shen (Mako) i due intraprenderanno un viaggio molto movimentato che fra pericoli, imprevisti e situazioni fuori dall'ordinario li porterà fino al villaggio attiguo al giacimento, un villaggio dove il tempo si è fermato e dove l'urbanizzazione di un paese in forte sviluppo come la Cina non è ancora riuscita a cancellare quel profondo legame che esiste fra l'uomo e la natura. In questo luogo fuori dal mondo, dove è ambientata la seconda parte del film, i protagonisti faranno scoperte sensazionali, impareranno ad apprezzare uno stile di vita completamente diverso a quello a cui erano abituati, intraprenderanno un nuovo e diverso viaggio dentro se stessi alla ricerca delle proprie origini, matureranno e cambieranno completamente il loro approccio alla vita stessa. E nel frattempo cercheranno di svelare le origini di una leggenda che ruota attorno a degli affascinanti uomini volanti e a una ragazza dalle origini misteriose che senza rendersene conto canta una canzone in lingua inglese.
Ciò che stupisce maggiormente per quanto riguarda l'estetica di questo lungometraggio è la differenza sostanziale che intercorre tra le frenetiche riprese cittadine nella parte introduttiva (che a momenti ricordano lo stile di Tsukamoto) e la staticità -resa evocativa dal sapiente utilizzo del campo lungo- in tutte le scene seguenti che riprendono in maniera molto naturale gli splendidi paesaggi della Cina più nascosta. Dimostrazione questa di grande maturità artistica e coerenza concettuale da parte del regista che si discosta senza problemi dagli eccessi che lo hanno reso famoso dimostrando, se mai ce ne fosse bisogno, la sua estrema duttilità e capacità di rinnovarsi senza scendere a compromessi.
Notevole la tematica naturalista che si fa forte nella diversa reazione da parte dei due protagonisti, l'uno determinato nella sua scelta conservatrice, l'altro quasi ipocritamente deciso nell'assurda speranza di sfruttare pur preservando. Ma è nello splendido finale, amaro ma ottimista, quando la voce fuori campo di Wada ci racconta da un lontano futuro come andranno a finire le cose e assistiamo al coronamento del sogno di un Ujiie ormai traballante a causa dell'età avanzata, che tutta la forza del messaggio esplode nella sua disarmante semplicità: forse non possiamo davvero cambiare e cambiarci, non tutti almeno, ma a volte vale davvero la pena di rimettersi in gioco, di mettere in discussione le proprie scelte, di essere coerenti con se stessi e di mettere da parte l'orgoglio e il materialismo per rendersi conto che i valori più veri, quelli che ci rendono davvero speciali, sono anche quelli che ci possono rendere davvero felici e in pace con noi stessi; e che è giusto, anzi necessario, lottare per conservare quel poco (o quel tanto) che ancora rimane di bello in un mondo abbruttito da un umanità che sembra allontanarsi sempre di più da quelle che sono le proprie origini.
18.3.08
Recensione: La guerra dei fiori rossi
Regia: Zhang Yuan
Sceneggiatura: Wang Shuo, Dai Ning
Cast: Bowen Dong, Yuanyuan Ning, Manyuan Chen
Produzione: Cina/Italia 2006
La guerra dei fiori rossi, film cinese di Zhang Yuan (Diciassette anni, East Palace West Palace), coprodotto da Marco Muller e tratto da un romanzo di Wang Shuo è un film che si lascia guardare piacevolmente, ma che non colpisce come vorrebbe.
La storia raccontata è uno spaccato di vita di Fang Qiangqiang, un bambino di quattro anni che, in un non meglio precisato periodo a metà del secolo scorso, viene affidato dai genitori troppo occupati per accudirlo alle cure di un istituto -un asilo- cinese pieno di ferrei regolamenti e inadatto allo spirito ribelle del protagonista. I fiori rossi del titolo sono dei premi che vengono dati ai bambini che si comportano bene seguendo tutte le regole loro imposte. Le tematiche rimandano immediatamente ad alcuni capolavori del cinema europeo e francese in particolare (I quattrocento colpi, Zero in condotta) ma purtroppo la forza dirompente di questi capisaldi del cinema non ne è uguagliata. Ciò che sembra essere la carenza principale del film è la mancanza di una storia forte e coinvolgente da raccontare, che sappia rapire ed emozionare come dovrebbe. Nell'ora e mezza di pellicola assistiamo per lo più a una serie di dispetti, marachelle, giochi, pianti e risate di bambini che, pur strappando molta tenerezza e qualche sorriso, non riescono a sopperire alle carenze che stanno nella debole sceneggiatura e non riescono ad emozionare come avviene, ad esempio, nel decisamente più riuscito Non uno di meno di Zhang Yimou.
Ma non fraintendete, come detto in apertura La guerra dei fiori rossi è un film piacevole e che scorre via leggero nella sua ora e mezza di durata. Il suo maggiore punto di forza è indubbiamente la straordinaria interpretazione dei giovanissimi attori, che sembrano veri anche nelle situazioni più difficili da ricostruire in scena, e il merito è di certo anche del regista che li ha saputi dirigere molto sapientemente. Alcune sequenze, come quelle notturne in cui il protagonista sogna di danzare sulla neve in fuga dalla propria ombra, sono davvero ben riuscite e trasudano una vena poetica e un lirismo apprezzabili. Geniale (ma non certo nuova) l'idea di girare molte scene all'altezza di un bambino di quell'età rendendo di fatto alcune scene (come quella in cui due bambine spostano una sedia che sembra enorme) molto immersive e anche divertenti.
Il comportamento ribelle del piccolo Qiang a tratti è molto curioso ed esprime con reale sincerità la voglia di sfuggire alle convenzioni, il desiderio di non conformarsi alla massa tipico degli altri bambini. Salvo rare occasioni, infatti, tutti i coprotagonisti si sottomettono senza fiatare agli ordini che vengono loro impartiti al punto da sembrare tutti uguali, come tanti stampini che daranno forma a modelli comportamentali perfetti ma del tutto privi di identità. Esplicativa la scena in cui i giovani sfilano di fronte a un plotone di soldati in riga imitandone i classici movimenti formali, quasi a voler estendere la tematica principale e a vole r suggerire che in realtà ciò che accade in quell'asilo è solo un allegoria di un atteggiamento che piaga la società contemporanea. Peccato che il film non osi andare oltre, peccato che appena si intravede la possibilità di svoltare verso un prodotto più drammatico si svolti e si torni indietro, peccato che il messaggio sia solo sussurrato e non risalti forte e chiaro e che anzi, ripetutamente, si ricerchi una leggerezza da commedia che potrebbe funzionare solo nella prima mezz'ora ma che non avrebbe dovuto portare lo spettatore ad un finale che onestamente non risulta davvero efficace.
Peccato perchè le qualità per realizzare un prodotto molto più efficace c'erano tutte se solo si fosse osato di più. Nonostante questo vale comunque la pena di dare una visione a questo lungometraggio (attenzione al doppiaggio in italiano di dubbia qualità), fosse anche solo per ammirare divertiti le smorfiette degli attori bambini e passare una serata con una commedia un po diversa dal solito.
15.3.08
Recensione import: The blue light
Regia: Yukio Ninagawa
Sceneggiatura: Yukio Ninagawa, Takuya Miyawaki
Cast: Kazunari Ninomiya, Aya Matsuura, Baijaku Nakamura, Anne Suzuki, Kumiko Akiyoshi
Produzione: Giappone, 2003
E' la storia del delitto perfetto che poi, come da tradizione, perfetto non si rivela. A commetterlo non è un efferato serial killer, ma un ragazzo normalissimo, con qualche problema forse, ma niente di difficilmente riscontrabile in un giovane adolescente. Un ragazzo che vede nel suo ex patrigno, ristabilitosi abusivamente nell'abitazione della sua famiglia, un usurpatore della pace familiare, un intruso. Che a ben vedere è esattamente quello che è, un uomo che non ha nulla da offrire e che per quanto possa essere poco approfondito nel film, lo è quanto basta per rendere evidente che non si tratta certo di una persona apprezzabile. Il problema non è l'atteggiamento più che legittimo che il protagonista, di nome Shuuichi, ha nei suoi confronti, ma è il metodo che egli decide di adottare per sbarazzarsi del problema. Un metodo, l'assassinio, che dal suo personalissimo punto di vista, comprensibile per molti versi, è del tutto legittimo. Non ci sono ripensamenti, non ci sono sensi di colpa, mentre l'omicidio viene pianificato. Ma dopo quel gesto, dopo la faccia dell'uomo che si contrae sotto gli occhi sbarrati del suo carnefice, niente sarà più come prima. Il mondo crolla addosso a Shuuichi, lentamente, inesorabilmente, anche dopo che il caso viene archiviato come morte naturale dalla polizia. Il senso di colpa, il rimorso, una serie di piccoli dettagli che sembravano inezie prima del momento fatidico ritornano a galla. Le cose peggiorano quando l'amico che Shuuichi aveva aiutato, ironia beffarda, a non commettere un assassinio, si rivolta contro di lui e il protagonista è costretto per la seconda volta a decretare la fine di una vita umana, mascherando l'omicidio come legittima difesa. A quel punto l'intera società sembra rivoltarglisi contro, la polizia, i coetanei, i professori. Unico appiglio, oltre alla famiglia, la compagna di classe Noriko, l'unica che sembra capirlo davvero, l'unica che che si sforza di stargli vicino pur essendo quella che probabilmente ne sa più di tutti sul conto di Shuuichi. Ma i sentimenti di Noriko non basteranno a riscattare l'innocenza perduta, l'animo sporcato e macchiato di sangue, la coscienza turbata e il rimorso che porterà inevitabilmente al tragico finale, sulle note della bellissima “The post war dream” dei Pink Floyd che avevamo già ascoltato durante i titoli di testa e che chiude in maniera memorabile la pellicola sull'espressione piangente della ragazza che fissa l'obbiettivo e che racchiude tutta l'amarezza del film in un unico e intensissimo sguardo.
Davvero, è difficile non lasciarsi coinvolgere da questa pellicola, grazie a una sceneggiatura perfetta e a una regia che fa il suo lavoro in maniera eccellente. L'occhio del regista si sofferma più sugli sguardi che sulle parole, esempio lampante la scena in cui Shuuichi e Noriko si fissano attraverso il vetro della vasca nella stanza di lui, sotto una struggente luce blu, in una serie di controcampi che ne esaltano le espressioni. Tutto il corpo del film è accompagnato poi da una stupenda colonna sonora, che risulta ben più efficace di tanti dialoghi nell'esprimere le emozioni che invadono i personaggi di questo dramma. Nota a parte per i bravissimi interpreti: Kazunari Ninomiya (che vedremo qualche anno più tardi in Letters from Iwo Jima) solido ed efficace, Aya Matsuura dolcissima e dallo sguardo perforante, Baijaku Nakamura comprensivo e a tratti divertente detective.
Poetico e toccante, profondo e sconvolgente, attuale e riflessivo. Tre delle scene citate, quella del primo omicidio, quella che ritrae Shuuichi e Noriko in uno scambio di sguardi di rara profondità e quella finale, varrebbero da sole la visione. Ma The blue light è in realtà stupendo dall'inizio alla fine, viaggio nell'animo di un adolescente turbato, parabola del rimorso, incursione negli antri più oscuri del cuore umano.
Da vedere e da assaporare minuto dopo minuto, fino al termine della visione, quando in un impeto di emozione verrebbe voglia di lasciarsi avvolgere e abbandonare in quella bellissima luce blu.
13.3.08
Recensione import: Millennium actress
Sceneggiatura: Satoshi Kon, Sadayuki Murai
Cast (voci): Miyoko Shôji, Mami Koyama, Fumiko Orikasa, Shôzô Îzuka
Produazione: Giappone/Sud Corea, 2001
Fra i maggiori autori di anime giapponesi è ormai fuori discussione che si possa accostare tranquillamente il nome di Satoshi Kon a quello di altri grandi maestri quali Hayao Miyazaki, Isao Takahata o Hideaki Anno, tanto per citarne alcuni. L'autore del recente Paprika ha dimostrato una notevole continuità nel realizzare di volta in volta opere che uniscono un ottima qualità artistica a una profondità di contenuti davvero rara. Il suo secondo lungometraggio, appunto Millennium Actress, non è mai giunto nella nostra nazione ma merita senza dubbio de essere portato all'attenzione dei lettori di queste pagine.
La padronanza del mezzo cinema che traspare dalla complessa e stratificata sceneggiatura (scritta a quattro mani con Sadayuki Murai) è solo una delle tante qualità del cineasta che risultano immediatamente evidenti nella pellicola.
La storia vede protagonista un'ormai anziana attrice da tempo ritiratasi dalle scene che accoglie nella sua abitazione due intervistatori del tutto intenzionati a portare a termine un servizio in cui l'ex stella del cinema racconta le tappe più importanti della sua vita. Questo incipit diventa un pretesto per Chiyoko, questo il nome della protagonista, utile a reinterpretare con la sua mente i vari personaggi da lei impersonati durante la lunga carriera nel mondo del cinema, ma soprattutto per far rivivere i suoi sentimenti di allora e in particolare l'amore fra lei e un giovane pittore antimilitarista in fuga, un amore che in effetti condizionò tutte le sue scelte più importanti, compresa quella di entrare nel mondo dello spettacolo. Un sentimento vero, autentico, che è il motore di tutta un esistenza e dello stesso film. Purtroppo il caso volle che i due non poterono mai più rincontrarsi e la chiave che lui le affidò, e che Chiyoko era fermamente intenzionata a restituire, andò perduta. Ma ecco che improvvisamente questi due signori si presentano alla porta della protagonista ormai anziana col prezioso cimelio, casualmente ritrovato.
La circolarità degli eventi, e quindi della vita, è una delle caratteristiche principali dell'opera. Il modo in cui la memoria della protagonista viene messa in scena è quanto di più visionario ci possa essere. Ci sono continui passaggi fra i ricordi e la realtà ma non è mai difficile distinguere l'uno dall'altro e questo è un dettaglio importante e una caratteristica che rende il film molto coerente e, nonostante la sua complessità, alla portata di chiunque abbia voglia di impegnarsi in una visione leggermente impegnativa ma appagante. Sono molte le trovate originali e simpatiche, come il fatto che molti dei personaggi secondari che di volta in volta compaiono nei film che Chiyoko rivive sono in realtà interpretati dagli stessi intervistatori che nel presente lei si trova di fronte, a dimostrazione che le visioni offerteci sono filtrate dalla mente e dalle emozioni della protagonista. La diversità dei film che essa ricorda permette al regista una notevole libertà stilistica e oltre a numerosi e suggestivi paesaggi abbiamo modo di apprezzare una diversità cromatica dipendente appunto dall'ambientazione specifica e dall'epoca in cui il film è ambientato.
Millennium Actress è un film al contempo simile e diverso rispetto al precedente, ma altrettanto valido, lavoro di Kon, Perfect Blue; o meglio, è un film che si avvale della stessa tecnica (sovrapposizione di realtà e immaginario) per raggiungere obbiettivi diversi: confondere e inquietare lo spettatore nel primo, approfondire importanti tematiche nel secondo.
Come si accennava, la tematica principale è quella del sentimento come forza motivante nella vita che, applicato ai diversi ruoli (che rappresentano numerose realtà della storia giapponese) acquisisce un valore non solo personale ma universale. Un altro tema messo in evidenza è quello che coinvolge l'importanza che rivestono i ricordi nella vita di ogni giorno e nella vecchiaia in particolare, da questo punto di vista il film di Satoshi Kon è nostalgico ma è evidente il desiderio di non piangersi addosso, per così dire. La protagonista infatti non fa delle sue memorie un pretesto per lasciarsi compatire, ma in contrapposizione con la debolezza fisica sembra acquistare mano a mano una sempre maggiore sicurezza di se e dei suoi immutati sentimenti. Anche nel finale Chiyoko, e noi con lei, viene messa di fronte a una realtà ben diversa da quella dei suoi film, ma con una spiccata nota di positivismo che non guasta mai. Come a dire che nonostante le difficoltà e i problemi che si presentano durante una vita intera, vale sempre la pena di perseguire i propri ideali e non nascondere i propri sentimenti e, infine, di mantenersi coerenti con le proprie scelte.