Regia: Hideaki Anno
Sceneggiatura: Ayako Fujitani, Hideaki Anno
Cast: Shunji Iwai, Ayako Fujitani
Film sperimentale e letteralmente stracolmo di simbolismi, Ritual è la seconda prova con attori in carne ed ossa per Hideaki Anno, il famoso creatore dell'anime cult Neon Genesis Evangelion.
Un regista (i personaggi sono tutti senza nome) ritorna al suo paese d'origine, un cupo agglomerato industriale fatto di ciminiere e tralicci dell'alta tensione. Appena arrivato incontra una ragazza stesa sui binari della ferrovia. La ragazza è strana, molto. Forse per questo il regista, che ne è potentemente affascinato, prova ad entrare nel suo mondo, un mondo creato ad hoc dalla mente della giovane donna il cui obbiettivo è erigere una barriera, o meglio un rifugio dentro il quale nascondersi, dentro il quale proteggersi da tutto ciò che può potenzialmente ferire emotivamente. La ragazza vive in un universo irreale e atemporale (ogni giorno è quello precedente al suo compleanno, ad esempio) scandito da ossessioni e rituali che trovano un parallelismo e significato rispettivamente nel passato e nel presente (ma non nel futuro che viene ripetutamente e (in)volontariamente annullato) della protagonista. Il suo passato emergerà poco a poco durante la visione e assumerà le forme di un cupo e intimo dramma familiare, un dramma che giustificherà il comportamento, spesso imprevedibile, della giovane donna di fronte all'elemento nuovo e destabilizzante costituito dal regista che diventa lentamente e inevitabilmente (nonostante un continuo, cieco ma infine inutile rifiuto) uno strumento di introspezione che la costringerà a fare i conti col proprio passato e a colmare quel vuoto siderale creatosi nel suo animo. Questa è senz'altro la prima (ma non unica), palese chiave di lettura che traspare dalla visione.
L'attrice che impersona questo complesso e affascinante personaggio è la figlia di Steven Segal (si, avete capito bene) Ayako Fujitani, autrice anche del romanzo dal quale è tratto il film, che si cimenta in un interpretazione, forse inaspettatamente, di altissimo livello. Ma non è certamente da meno il protagonista maschile, il regista che viene interpretato da un reale professionista della cinematografia nipponica moderna nella sua prima e fino ad ora unica (ma speriamo non ultima) prova da attore, Shunji Iwai (Love Letter, All About Lily Chou-Chou).
Ed è proprio affrontando la visione dal punto di vista del personaggio maschile che si evince un ulteriore (e a parere di chi scrive ancor più interessante) chiave di lettura contenuta in questa articolata opera cinematografica.
E' davvero difficile pensare che la scelta di un vero regista per questo ruolo sia frutto del semplice caso, sicuramente diventa impossibile pensarlo nel momento in cui il personaggio sullo schermo impugna una videocamera e inizia a filmare, e le immagini diventano magicamente quelle che lui stesso inizia a riprendere. Dal momento in cui questo avviene il regista (quello vero) si lancia in una riflessione filosofica sul significato del cinema stesso, sul suo rapporto con la realtà. Ed ecco che la presenza di Iwai sul set assume un significato nuovo e imprescindibile, essendo evidente che il personaggio da lui interpretato non ha nome perchè non ha bisogno di essere identificato in nessun altro che non sia Iwai stesso (e chiaramente Hideaki Anno che si rispecchia fin troppo bene nel suo connazionale).
La struttura filmica è decisamente particolare e viene scandita da un conto alla rovescia in cui i giorni di un intero mese passano fino al fatidico momento in cui il simbolico guscio della ragazza si frantumerà e la realtà entrerà prepotentemente a far parte della sua vita con tutto il dolore che ne deriva, ma anche con la speranza di un futuro più sereno. Durante la visione due voci fuori campo (una maschile e una femminile) esternano riflessioni di notevole profondità che danno maggior spessore all'intero film. La regia è molto ricercata ed efficace e si avvale in certe sequenze di un modesto utilizzo della CG che dona, in questo caso, un aspetto quasi surreale alle suddette immagini. Le musiche struggenti contribuiscono enormemente nel toccare le corde più intime dello spettatore, e il pezzo finale di Cocco che accompagna una bellissima ripresa su un cielo blu (in aperto contrasto con la cupezza generale dell'opera) chiude degnamente un prodotto cinematografico complesso e fascinoso, intenso e, sebbene non adatto a chiunque, di indubbio spessore e valore artistico.
9.6.08
Import: Ritual
Un prodotto di difficile collocazione, complesso da assimilare e da metabolizzare a motivo della costante (quasi ossessiva) ricerca da parte del cineasta di un linguaggio prettamente simbolico e metaforico che fa della struttura della regia e della messa in scena il suo punto di forza.
Recensione a cura di Nosf
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