17.3.08

Recensione: Onora il padre e la madre

Regia: Sidney Lumet
Sceneggiatura:
Kelly Masterson, Sidney Lumet
Cast:
Philip Seymour Hoffman, Ethan Hawke, Albert Finney, Marisa Tomei

Possa tu andare in Paradiso mezz’ora prima che il diavolo sappia della tua morte.
E’ questa la frase, che trova le sue origini in Irlanda, da cui è tratto il titolo originale “Before the devil knows you are dead”.
“Onora il padre e la madre” (ancora non mi spiego la traduzione del titolo) è incentrato, solo all’apparenza, sulla vita di due fratelli, Hoffman
e Hawke, che messi alle strette dall’inarrestabile necessità di soldi decidono di rapinare la gioielleria di famiglia.
Un colpo facile, niente armi, nessuno si farà male e i genitori potranno tranquillamente incassare l’assegno dell’assicurazione, ma niente va’ come previsto.
“Onora il padre e la madre” inizia con la tanto chiacchierata scena di sesso tra Philip Seymour
Hoffman e Marisa Tomei, per poi passare, con un salto temporale, al giorno della rapina, momento in cui le vite di Andy e Hank cambiano per sempre.
Tutta la vicenda è narrata tramite i differenti punti di vista dei vari componenti della famiglia, e anche in diversi momenti nel tempo (un espediente simile lo si è visto di recente in “Prospettive di un delitto” di
Peter Travis, anche se il risultato è stato leggermente più confusionario).
In un alternarsi di tragedia greca e dramma shakesperiano Lumet mette a nudo l’America e le sue
paure legate al materialismo gretto, in un gioco ad incastri (badate bene, non si tratta di flashback) intriso di odio, rancore e disperazione, in cui la giustizia bisogna procacciarsela da soli in quanto l’autorità è capace di fare molto poco, e in cui un po’ alla volta tutti i pezzi vanno al loro posto.
Il tutto è sorretto da un solido impianto narrativo (Lumet ha messo mano anche all’originale sceneggiatura di Kelly Masterson), capace di trasmettere le stesse emozioni che provano i tre Hanson (sembra doveroso includere anche il padre).
Non c’è via di scampo, non tanto per via di quanto recita la frase in apertura (“Non tutti i peccati sono uguali”), quanto per l’impossibilità di tornare indietro una volta che si è dato il via al giro di morte e follia.
Andy (Hoffman) è sfrontato, uno squalo, capace di compiere qualsiasi gesto, anche il più subdolo, come mettere in piedi una rapina ai danni dei propri genitori, e Hank (Hawke), è invece il più grazioso per i due genitori, quello da coccolare perché “in fond
o è ancora un ragazzino”.
Un povero “palle mosce” come lo apostrofa il fratello.
Il rapporto fraterno non è sicuramente il perno della storia, il rapporto odi et amo che si è instaurato tra i due rappresenta solo la superficie, la punta dell’iceberg, di quella che è altresì la realtà (Hank una volta a settimana si concede anche il lusso di andare a letto con Gina, moglie di Andy).
Al centro di tutto c’è la famiglia.
Una famiglia distrutta dall’inarrestabile società moderna, ossessionata dal guadagno e dall’apparire, corrotta dal denaro (la ex moglie di Hank lo chiama fallito, stessa cosa fa la figlia quando si vede negare i 130 dollari per andare in gita con i suoi amici), dove un padre deve sentirsi dire che no
n è stato all’altezza in tutti questi anni (e lo schiaffo che riceve Andy lo sente anche lo spettatore tanto è carico di odio e risentimento) e dove un “umile” tagliatore di diamanti può dirti cosa fare e perché.
Il pregio della pellicola è quello di riuscire a risultare interessante nonostante si sappia già tutto o quasi di quanto accade nel primo tempo (Nanette Hanson uccide il suo rapinatore prima di cadere irreversibilmente in come a causa delle ferite riportate), spalancando le porte ad un secondo tempo imprevedibile in cui si alternano momenti alla “Deliverance” con altri alla “Falling dawn”, con un girandola di morti che rotea sempre più vicino ai due protagonisti e che arriverà, inevitabilmente, a coinvolgere anche loro.
Il peso della coscienza risulta sempre più determinante (un po’, perdonatemi l’accostamento, come succede ne “Lo specchio” di Tarkovskij, anche se con esiti ben differenti), non è infatti il rimorso a spingere alla rovina i due, ma il venire a galla della verità.
Una verità amara, che nessuno vorrebbe mai conoscere.
A fare la parte del leone è il bravissimo Hoffman, sorretto da un Albert Finney in gran forma, anonimi invece la Tomei (che oltre ad apparire scollata non fa) e Ethan Hawke, troppo caricaturale.
E a voler cercare proprio il pelo nell’uovo, alcuni tempi risultano eccessivamente dilatati. Un ottimo film, girato con maestria da un regista che nonostante la veneranda età di 84 anni è ancora capace di trasmettere emozioni forti (quando in molti lo davano per finito).

Non tutti i peccati sono uguali, se anche un padre non è capace di perdonare.


Recensione a cura di Svengali

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