31.5.08

Recensione: In Bruges - La coscienza dell'assassino

Regia: Martin McDonagh   Sceneggiatura: Martin McDonagh

Cast: Colin Farrell, Brendan Gleeson, Ralph Fiennes, Jordan Prentice, Clémence Poésy


A metà tra strada tra un noir ed una black commedy, convince abbondantemente il primo lungometraggio del premio oscar per il corto “Six Shooter”.



Dopo aver commesso un tragico errore due killer, Ray e Ken, vengono inviati dal loro capo, Harry, in vacanza forzata a Bruges, in Belgio.

Inizialmente contrari al soggiorno in un luogo così freddo e isolato, finiranno per rinsaldare il loro rapporto, ammirare le bellezze della città e trovare il vero amore.

Tutto questo fino a quando Ken non riceve da Harry l’ordine di uccidere Ray.

Bruges è talmente bella che sembra uscita da una favola, tutte quelle cattedrali gotiche, i canali, la nebbia ghiacciata che la rende onirica, irreale.

Insomma tutte quelle cose che a Ray non vanno per niente a genio.

Primo film di Martin McDonagh (oscar 2006 per il miglior cortometraggio in live action), che sceneggia e dirige un noir solido, a metà strada tra il cinismo di “Non è un paese per vecchi” e le derive splatter-trash care a Quentin Tarantino, ma non manca lo humour da black comedy tipico delle produzioni inglesi recenti (“Lock & Stock” e “Snatch” su tutte) seppure i ritmi di montaggio sono completamente agli antipodi.

Il successo del film è da riscontrare oltre che nella sceneggiatura anche nei due interpreti, affiatati e pienamente calati nella parte, da un lato il giovane Farrell (che non brilla certo per espressività e capacità recitative, ma che in questo frangente, mistero della fede, risulta più che convincente), un disincantato Ray, che si perde nelle uniche grazie che Bruges riesce ad offrirgli, quelle femminili, dall’altro il navigato Brendan Gleeson (uno che al successo è arrivato in ritardo e che riesce sempre a dare quel tocco personale al film), un Ken kitsch e al contempo serioso, che apprezza la cultura artistica più della cultura degli omicidi.

Oltre al duo trovano posto anche un nano (Jordan Prentice), preso in prestito a David Lynch, capace di intavolare discorsi razzisti su future guerre tra bianchi e neri (e tra nani bianchi e nani neri) e costantemente sotto l’effetto di chetamina e acidi, e una ladra-spacciatrice (Clémence Poésy), che finisce per innamorarsi di Ray (e farlo innamorare di lei) e che ha un ex ragazzo che gira con pistole caricate a salve, si finge skinhead ma è solo una “femminuccia”.

Senza dimenticarsi ovviamente del nevrotico Harry (Ralph Fiennes), capo dei due killer, affetto probabilmente da coprolalia e ispirato fino all’ultimo da rigidi principi morali.

Lo humour nero, di cui la pellicola è satura, non risulta mai fastidioso, anzi è un piacevole diversivo fra i momenti di riflessione del duo, persi tra un quadro di Hieronymus Bosch e un giro in barca tra i canali, che finiscono per incanalare i loro discorsi sempre -inaspettatamente- sul rispetto della vita, su come sia possibile conciliare il proprio lavoro (in fin dei conti sono assassini) con il quieto vivere e il rispetto per la altrui persona, riflettendo sull’aldilà e sui concetti di peccato e di perdono, sul destino.

Le musiche, bellissime, sono di Carter Burwell, colui che ha curato la colonna sonora anche di “Non è un paese per vecchi” e di “Onora il padre e la madre”, note struggenti, cariche di tensione, che accompagnano alla perfezione l’intera pellicola.

L’unica nota stonata della pellicola (altrimenti pressoché perfetta) è Ralph Fiennes, poco convincente, appare stanco e fuori forma, perso nella stessa nebbia che il suo personaggio decanta incessantemente nelle chiacchierate telefoniche con Ken.

Si sarebbe potuto concludere nel più classico dei modi, con il programmatico scontro finale tra il “buono” Ray e il “cattivo” Harry, ma fino all’ultimo il beffardo destino gioca un brutto scherzo e la storia, storia di principi e ideali, sembra ripetersi.

Una piacevole sorpresa.

Da tenere d’occhio Martin McDonagh.



Recensione a cura di Svengali

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