2.6.08

Recensione CineCult: Eraserhead - La mente che cancella

Regia: David Lynch

Sceneggiatura: David Lynch

Cast: Jack Nance, Charlotte Stewart, Laurel Near, Jack Fisk

Anno di produzione: 1977


Il primo lungometraggio di un maestro del cinema americano: un film onirico, visionario, inquietante e diabolicamente attraente.



Straniamento, disgusto, disagio.

Eraserhead, primo lungometraggio del maestro americano David Lynch, lascia così lo spettatore: spaesato, turbato, confuso.

È la storia di Henry, un uomo( probabilmente autistico) impegnato in un matrimonio con una giovane donna( probabilmente epilettica). Cenerà con i genitori di lei. Avrà un figlio, creatura mostruosa, che dovrà accudire. Una vicina sarà oggetto del suo desiderio sessuale.

Un film dalla difficile gestazione, girato con poco, pochissimo, in 5 lunghi anni; il regista, spesso, passava la notte sul set.

Eraserhead è, dunque, un’opera di ardua interpretazione.

Descritto dallo stesso regista come “un sogno di avvenimenti oscuri e pericolosi” non può avere, per sua natura, un vero e proprio plot.

La narrazione è infatti totalmente destrutturata, visionaria, onirica, priva di una logica evidente.

Le scene si raccontano da sole, minuto per minuto, si seguono l’une alle altre per allusione, raramente secondo ordini cronologici, semantici o narrativi.

Il film è girato interamente in bianco e nero, descrivendo spazi claustrofobici e oscuri.

A volte, invece, si porta in ampie panoramiche di luoghi aperti e completamente desolati, con il solo Henry ad attraversarli, minuscolo, sovrastato dal paesaggio: enormi edifici abbandonati, rumorosi complessi industriali, senza vita.

David Lynch non ha mai, in effetti, spiegato quale fosse il senso ultimo dei suoi film.

L’intento del regista è rappresentare un incubo. Far vivere, l’incubo. E non c’è logica nel mondo dei sogni, solo allegorie, allusioni, perversioni, simboli. Poche parole, inquietudine, tensione dell’ignoto.

Grazie ad una colonna sonora peculiare, che propone suoni più melodie, Lynch costruisce scene inquietanti, sospese tra due mondi, quello della vita e quello del sogno, che, sovente, si confondono, si accavallano, si sostituiscono.

Ci sono poi alcune immagini, gesti, scene che richiamano sfere semantiche specifiche come quella sessuale; la cena, in particolare, collega il piacere di un pasto all’estasi sessuale. Oppure la ripetuta visione della vicina di casa, conturbante presenza a cui Henry cederà (nel senso più letterale possibile).

Altre, invece, si riferiscono alla fecondazione, altre ancora al mondo della schizofrenia, dell’epilessia, dell’allucinazione

Un film sul terrore della paternità, incarnata dal bambino deforme, con la testa di una capra scuoiata, avvolto completamente in fasce dalla base del lungo collo in giù che emette latrati insopportabili, esasperazioni iperboliche del pianto d’un neonato.

Sull’uomo che evade dall’incubo della vita fuggendo nel sogno, piombando nell’incubo della mente.

Il protagonista, esausto, si getta sul letto, osserva il termosifone: lì un teatrino, una donna dalle gote rigonfie e nodose; lui stesso, nel teatrino con il palco a scacchi, la sua testa che si stacca, cade, sprofonda in strada; raccolta da un bimbo che porta il macabro ritrovato in una fabbrica di gomme per matite.

Un film sulle monotonie del matrimonio, sulla difficile relazione di coppia.

Sulla ragione che si perde, si contamina, si sfascia; l’uomo delle leve, il demiurgo dell’agire di Henry, non può nulla contro il potere dissolvente del sogno, meta della fuga del terrorizzato, dell’inquieto, dell’uomo vittima della sua stessa umanità.

Un film difficile da raccontare, difficile da recensire.


Sospeso tra surrealismo, espressionismo, onirismo è un film metafisico, una finestra sul mondo dei sogni, degli incubi.

Mondo dove solo le nostre paure, i nostri desideri profondi, inconsci, le nostre inquietudini, trovano spazio, assumono forme, sostanza.



“in heaven, everything is fine, you’ve got your good things, and I’ve got mine”

Recensione a cura di Assurbanipal

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