20.5.08

Recensione: Gomorra

Regia: Matteo Garrone
Sceneggiatura: Matteo Garrone, Roberto Saviano, Ugo Chiti, Maurizio Braucci, Gianni Di Gregorio, Massimo Gaudioso
Cast: Toni Servillo, Salvatore Abruzzese, Maria Nazionale, Gianfelice Imparato, Salvatore Cantalupo, Carmine Paternoster, Marco Macor, Ciro Petrone

Dal libro-caso del giornalista partenopeo Roberto Saviano, un viaggio nei meandri del sistema Camorra.



Non c’è possibilità di scelta, si è quasi sempre costretti ad obbedire alle regole del Sistema, la Camorra, e solo i più fortunati possono pensare di condurre una vita ai limiti del “normale”.
Un cupo viaggio nel mondo criminale della camorra, segnato non solo dal sangue, ma anche dai loschi traffici.
Tra merci "fresche" che sotto le forme più svariate arrivano al porto di Napoli per essere stoccate e occultate e merci ormai morte che, da tutta Italia e da mezza Europa, sotto forma di scorie chimiche vengono abusivamente “sepolte" nelle campagne campane, dove avvelenano, tutto e tutti.
Cattedrali di cemento e follie hollywoodiane nella Gomorra dei giorni nostri, in un resoconto imparziale che lascia poche speranze e che altresì non rende comunque giustizia alle bellezze naturali (e non solo) che caratterizzano quelle terre.
Cinque storie che raccontano un micro cosmo, quello della Camorra (mai pronunciata nel corso della pellicola), che non avrà forse il privilegio di esser diventata terreno fertile per le produzioni cinematografiche, ma che rappresenta in ogni caso una realtà quotidiana, non solo della Campania, ma dell’Italia tutta (per non allontanarci dal panorama nazionale), da cui non esistono vie di scampo (almeno non sulla corta distanza) e l’unico atteggiamento possibile pare esser la rassegnazione o l’omologazione al “sistema”.
Diversamente dal libro di Roberto Saviano (di cui consiglio in ogni caso la lettura per farsi un’idea più ampia sulla questione) il film diretto da Matteo Garrone (già regista de “L’imbalsamatore”) è incentrato su cinque diverse storie (diversamente dagli undici temi trattati nella versione cartacea) e su sette personaggi (oltre a quelli di contorno) ognuno rappresentate di una diversa condizione-situazione, ma tutti accomunati dal vivere in un inferno a cielo aperto.
Dopo l’esordio sanguinolento (con probabile regolamento di conti) Garrone scinde il film in cinque parti che mal si intrecciano fra loro, benché risultino tutte interessanti, e che non consentono di godere a pieno della pellicola, invece valida, toccante e profonda, tanto da lasciare un solco indelebile per ognuno dei personaggi e delle storie presentate.
C’è il tredicenne Totò (Abruzzese), che da semplice porta buste per conto della madre si ritrova associato ad uno dei vari clan che regnano sovrani su Scampia e Secondigliano, costretto a barbare prove di coraggio per dimostrare di poter esser considerato un uomo e non più un ragazzino e istigato a tradire Maria (Nazionale) perché ritenuta mandante di un omicidio; c’è Don Ciro (Imparato), che ogni giorno percorre i lunghi corridoi delle Vele di Scampia per distribuire i soldi alle famiglie dei vari associati, costretto costantemente tra paura, codardia e disprezzo per un mondo che lo ha fatto suo senza che lui potesse dire o fare altrimenti; c’è Pasquale (Cantalupo), abile sarto (a cui si fa riferimento anche nel capitolo intitolato “Angelina Jolie”) che per sbarcare il lunario decide di collaborare con una delle tante fabbriche abusive edificate dai cinesi e che finisce per farne le spese sulla sua pelle; ci sono Franco (Servillo) e Roberto (Paternoster), che si occupano di riciclare rifiuti tossici per le grandi aziende per conto della Camorra, in modo che sia sempre tutto ‘clean’; e infine ci sono Pisellino e O’Masto, nei cui deliri di onnipotenza si ravvisano un po’ tutte le caratteristiche dei moderni “gangster” nostrani, tra scimmiottamenti e somiglianze con i protagonisti delle pellicole hollywoodiane, e il cui destino è irrimediabilmente segnato, dal momento in cui decidono di “correre” da soli a quello in cui accettano un incarico per conto di uno dei capi famiglia.
Ed è proprio nel grottesco urlo dell’ossuto Pisellino, con in mano un Kalashnikov, che è racchiuso lo spirito dell’intero film, portatore di un potente messaggio insieme alla controparte cartacea: la speranza che le cose possano cambiare, nonostante un prodotto d’intrattenimento, da solo, non possa fare la differenza.
Apprezzabilissima la scelta di adottare il dialetto napoletano per il parlato dei vari attori (con annessi sottotitoli), ogni altra soluzione avrebbe snaturato l’opera, così come quella di mantenere un tono imparziale, senza lanciarsi in improbabili considerazioni di carattere personale.
Convincente la prova dell’intero cast, dal noto Toni Servillo (presto sugli schermi anche ne “Il divo” di Paolo Sorrentino) agli esordienti Macor e Petrone, tutti “reali” nei vari ruoli interpretati e, soprattutto, tutti nati e cresciuti nei luoghi dove le vicende si svolgono.
Un valido prodotto, minato da una narrazione sconnessa che in parte rovina quanto di buono fatto.
In concorso a Cannes, è probabile che lo vedremo anche ai prossimi Oscar.


Recensione a cura di Svengali

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