29.5.08

Recensione: Il divo - Straordinaria vita di Giulio Andreotti

Regia: Paolo Sorrentino
Sceneggiatura:
Paolo Sorrentino

Cast:
Toni Servillo, Anna Bonaiuto, Flavio Bucci, Carlo Buccirosso, Massimo Popolizio, Piera Degli Espositi, Giorgio Colangeli


La vita di Giulio Andreotti nel periodo che va dal 13 Aprile 1991 al 26 Settembre 1995.


Era il 1991.
Un uomo solo si aggira per le strade di una Roma deserta, dormiente, sono le quattro del mattino, è Giulio Andreotti, all’alba del suo settimo mandato come presidente del consiglio, costretto ancora una volta a confrontarsi con tutta una serie di individui e
situazioni (non ultimo l’incontro con Totò Riina) che lo porteranno prima ad aspirare ad un posto, al posto, al Qurinale, poi a difendersi dall’accusa di associazione mafiosa.
Era il 1995.
Scommessa difficile quella di Paolo Sorrentino, portare su schermo e condensare in soli 110 minuti le “gesta” di un uomo che nel bene e nel male ha rappresentato l’Italia per quasi cinquant’anni, prima di uscire di scena (perché è meglio tirare a campare che tirare le cuoia), che ha lasciato un indelebile solco nella storia del (nostro) paese oltre che nella politica nazionale e internazionale.
Avvalendosi di un cast di prim’ordine, dal Servillo già visto nel magnifico “Le conseguenze dell’amore, ai vari
Giorgio Colangeli, Flavio Bucci, Carlo Buccirosso, Massimo Popolizio e Piera Degli Espositi, solo per citarne alcuni, tutti presi in prestito per dare vita ad un ritratto (im)parziale del divo Giulio, a metà tra il grottesco e il sublime, rischiando spesso i toni caricaturali (le esagerazioni alla Moretti ne “Il caimano”, per intenderci, non si vedono nemmeno col cannocchiale), senza tuttavia mai ricadervici.
Centro delle attenzioni è il periodo che va’ dal 13 Aprile 1991, inizio del VII governo di Andreotti, al 26 Settembre 1995, giorno in cui inizia il processo a suo carico, accusato di associazione mafiosa (il resto è, come del resto lo è in parte il film, storia moderna).
Un uomo accusato di tutto (a parte che delle guerre puniche), giusto tra i giusti, sa tutto di tutti, ma di quei tutti non ne frequenta neanche uno, ne conserva un personale ricordo in un suo archivio.

E gli basta nominarlo, quell’archivio, per mettere a tacere chi ha deciso di parlare più del dovuto.
Il sottotitolo recita: “La straordinaria vita di Giulio Andreotti”, ma di straordinario, come lui stesso si trova a dire più volte, la sua vita non ha proprio nulla, anzi, delle oltre trecentomila persone conosciute nel corso della sua esistenza nessuna di quelle lo ha fatto sentire in compagnia, è sempre solo, o meglio, a fargli compagnia c’è la sua costante emicrania (alleviata con l’aspirina assunta in doppia dose) e una segretaria, Vincenza Enea Gambogi (Piera Degli Espositi) che costantemente lo sgrida affinché stia diritto (ma lui sta così comodo in quella posizione, naturale).
Gira per le stanze della sua casa, un pelli
cceria riadattata (“Craxi diceva sempre: Andreotti è una vecchia volpe, un giorno finirà in pellicceria. E in pellicceria ci sono finito, ma da vivo”), quasi completamente al buio, avanti e indietro, indietro e avanti, si esercita sulla cyclette (fare sport non è il caso, tutti i suoi amici che facevano sport sono morti, lui non ha intenzione di cascare nella stessa “trappola”) meditando sul perché lo “squalo” Vittorio Sbardella (un convincente Vittorio Popolizio) gli dia contro (ma quando è il momento del tracollo, della massima delusione, quando Scalfaro viene eletto presidente, è lui a citare: “Guarda Andreotti, guardalo bene, e impara come si sta al mondo), sul perché non sia necessario dare credito al caso quando esiste solamente il volere di Dio (lui che ogni mattina alle quattro esce di casa per andare a pregare in chiesa e parlare coi preti, non con Dio come faceva De Gasperi, perché i preti votano, Dio no), sul perché sia costretto a sopportare l’ennesima uscita incongrua di Franco ‘Limone’ Evangelisti (Flavio Bucci, magnifico, insieme all’altro grande della pellicola, Giorgio Colangeli) e soprattutto sul perché continui a vedere Aldo Moro (interpretato per l’occasione da Paolo Graziosi, “Nessuna qualità agli eroi”) ovunque e a sentire la sua voce in ogni momento, nonostante fosse l’unico (ma la storia da un’altra versione) durante quei 55 giorni a preoccuparsi ed a rattristarsi per la sua sorte, che lo dipinge come uomo grigio, segnato da una grigia e anonima esistenza.
Ribattezzato con infiniti soprannomi, da immortale a gatto nero, a onnipresente, a divo, titolo anche della pellicola, per parafrasare il divo Cesare e la sua sacralità in ambito politico.

A dargli un volto e una voce è il maestoso Toni Servillo (che più spesso di quanto non succeda ultimamente vorremo vedere al cinema), alla quarta collaborazione con Sorrentino, che si prende anche il “lusso”, in un immaginario monologo sul finale, di scandire con voce possente ideali, idee, passioni, delusioni, sottigliezze, mezze verità, tra citazioni reali e immaginarie, dal male minore per ottenere il bene maggiore, con il solito cinismo e distacco della sua controparte “reale” (e dell’ironia Andreottiana il film ne è pregno fino al midollo).
Si riaccendono le flebili luci del suo appartamento e ancora una volta si intravede quella figura curva e grigia.

Il lavoro sulla fisionomia degli attori è straordinario, tutti identici ai personaggi interpretati, al punto che le didascalie per “riconoscerli” risultano superflue (e un po’ fuori luogo).
Paolo Sorrentino dirige con mano ferma, riprendendo a piè pari il suo classico stile alternato tra i piani sequenza, le lunghe inquadrature e il montaggio frenetico, ossessivo, accompagnato dalle musiche di Theo Teardo (che già con Sorrentino aveva collaborato ne “L’amico di famiglia”), a cui si accostano brani di Sibelius, Vivaldi, Ricchi e Poveri, Renato Zero, Saint Sens e Bruno Martino, e sottolineato dalla fotografia fredda di Luca Bigazzi (altro storico collaboratore del regista/autore).

Tra simbolismi e metafore (l’incontro-scontro con il gatto dagli occhi eterocromici, lo ska
te-board che vola per i corridoi di Montecitorio, le grottesche danze a cui Paolo Cirino Pomicino si abbandona) realizza un film potente, significativo e significante, alla pari dell’altro italiano in concorso a Cannes (“Gomorra”), da cui prende le distanze per il registro usato nella narrazione.
E proprio come “Gomorra”, di Matteo Garrone, si apre sciorinando una serie di omicidi, in questo caso eccellenti (il generale Dalla Chiesa, il giornalista Pecorelli, Sindona) e si conclude lasciando in sospeso, senza un giudizio, perché non esiste una verità assoluta, un’unica certezza, ma tutta una serie di verità, di realtà, poste davanti ai nostri occhi e che lasciano adito ad una personale interpretazione (entrambi non si lanciano in giudizi personali, politicizzanti e parziali).
Ed ahimè, proprio come “Gomorra” non è esente da difetti, ad un primo tempo stilisticamente e narrativamente perfetto ne segue un secondo più macchinoso e lento, in cui Sorrentino ripropone artifici già visti, per riuscire a mandare avanti la baracca, anche per via delle situazioni che la trama propone, e che vanno ad inficiare sul giudizio complessivo.
Bello e imperfetto, un po’ dispiace.

Dissacrante la scelta di “Da Da Da” dei Trio per i titoli di coda.


Recensione a cura di Svengali

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