27.5.08

Recensione CineCult: La sposa in nero

Regia: François Truffaut
Sceneggiatura: François Truffaut, Jean-Louis Richard
Cast: Jeanne Moreau, Michael Lonsdale, Michel Bouquet, Jean-Claude Brialy, Charles Denner, Daniel Boulanger
Anno di produzione: 1967
Titolo originale: La Mariée était en noir

La vendetta è un piatto che va servito freddo
(Antico proverbio Klingon)



Un giorno, per puro divertimento, cinque uomini si ritrovano a giocare e a scherzare intorno ad un tavolo.
Uno di loro, ebbro, uccide involontariamente con un colpo di fucile un giovane sposo al momento della sua uscita dalla chiesa.
La moglie Julie mette allora in atto un abile piano che la porterà a vendicarsi di tutti e cinque gli sprovveduti assassini.
L’ottavo film di François Truffaut è, ancora una volta, un noir.
Un intenso dramma, nero come l’odio, caratterizzato da una narrazione non lineare che ad un primo impatto potrebbe scoraggiare lo spettatore più disattento (il primo tempo è un andirivieni di citazioni, rimandi e flashback), ma che trova, tuttavia, in un secondo tempo magistrale la sua acme, quando convergono tutti i vari fili tessuti dalla triste sposa, satura di dolore e mai di vendetta.
Jeanne Moreau (da riscoprire in veste di regista), a distanza di sei anni dallo struggente “Jules et Jim”, torna a collaborare con il suo pigmalione esprimendo in scena una performance perfetta che già da sola basterebbe a rendere il film indimenticabile.
Contesa tra la mitologica Diana (a cui Truffaut si rifà esplicitamente in una lunga sequenza), come lei vergine e abile nella ricerca (parafrasando la caccia) e i sogni interrotti di una bambina mai cresciuta, Julie Kohler, sposa nata vedova, attua un perfetto meccanismo mortale, freddo e impeccabile.
E proprio come i fanciulli, non conosce mezze misure, a chi le ha tolto l’amore e la possibilità di una vita felice, lo ripaga con la stessa moneta, togliendogli la vita, alternando il bianco e il nero della vita nei suoi abiti (bianco per sedurre, nero per uccidere), trasformandosi di volta in volta a seconda delle situazioni e portando a compimento la sua vendetta nei confronti di ognuno dei cinque uomini, utilizzando ogni volta mezzi differenti per raggiungere il suo scopo e non mostrando mai compassione (solo con il più “tenero” Fergous, interpretato da Charles Denner, mostrerà qualche ravvedimento, ma il partecipare al suo funerale si rivelerà poi essere solo un mezzo per raggiungere i suoi scopi altri).
La citazione dall’incipit del tarantiniano “Kill Bill” (e prima ancora da “Star Trek II - L’ira di Khan”) non è un caso, checché ne dica il suo autore (dichiaratosi altresì “fan” di Godard), i due film partono dalle stesse basi (sposa vedova il giorno del suo matrimonio) per arrivare alle medesime conclusioni (togliere la vita a chi l’ha fatta soffrire), senza dimenticare che le persone a cui la sposa Thurman da’ la caccia sono in numero uguale a quelle ricercate dalla sposa Moreau, tuttavia “La sposa in nero” ha anche dei debiti nei confronti della cinematografia hitchcockiana, sia nella genesi dell’opera, tratta da un romanzo di quel Cornel Woolrich che diede ad Hitchcock le basi per realizzare “La finestra sul cortile” (il romanzo è dal titolo omonimo), sia per quanto riguarda le musiche composte da Bernard Herrmann, storico collaboratore del maestro del brivido.
Fuor di dubbio un ottimo film, inspiegabilmente rifiutato dal suo autore.
La “Marcia nuziale” composta da Wagner non richiamerà più le stesse sensazioni.


Recensione a cura di Svengali

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