6.6.08

Recensione: Chiamata senza risposta

Regia: Eric Valette

Sceneggiatura: Andrew Klavan

Cast: Shannyn Sossamon, Edward Burns, Ray Wise, Rhoda Griffis, Raegan Lamb


Remake (e si, un altro) a stelle e strisce del j-horror targato Takashi Miike.



Quando alcuni suoi amici muoiono in circostanze misteriose dopo aver ricevuto sul cellulare un messaggio che gli annunciava l’ora esatta della loro morte, la giovane Beth Raymond (Sossamon) si rivolge alla polizia nella speranza di riuscire a far luce sulla questione e salvare le vite di altri suoi amici, ma nessuno è però disposto a credere quanto racconta, tranne il detective Andrews (Burns). Beth e Andrews cercheranno assieme di venire a capo del mistero. Ma la catena di messaggi mortali non sembra essere stata interrotta.

La fiera del qualunquismo e dei luoghi comuni.

Altre espressioni per descrivere “Chiamata senza risposta” non esistono.

Libero adattamento dall’originale giapponese firmato Takashi Miike (ma la produzione ha ben pensato di citare solo il racconto di Yasushi Akimoto, “Chakushin ari”, salvo poi contraddirsi nei titoli di coda citando l’omonimo film), la pellicola di Eric Valette (che in “Maléfique” del 2002 aveva svolto un lavoro quanto meno sufficiente) è un’accozzaglia di tutti gli stereotipi possibili e immaginabili riscontrabili nei film di genere, dalla bambina indemoniata, alla liaison giusto accennata tra il solito poliziotto che non ha nulla da perdere, Edward Burns (vederlo recitare è come pretendere che ogni giorno piovano rane dal cielo), e la giovane e sventurata ragazza, Shannyn Sossamon (abbonata agli horror scadenti, ci aveva già deliziato col pessimo “Catacombs”), da una sceneggiatura imbarazzante (per non dire banale) ad una serie di comprimari che non ha nulla da invidiare al cast di “AvP2” (e probabilmente non è un caso che Johnny Lewis reciti in entrambe le pellicole).

Dell’originale datato 2003 conserva solo alcuni elementi, quali l’inesorabile incedere verso una morte preannunciata e a cui è impossibile porre rimedio e la sequela di morti accidentalmente troppo forzate.

Se già il film di Miike risultava una commistione di tematiche poco riuscite (gli stessi elementi, per sommi capi, li si può riscontrare anche in “Phone”, “Ringu”, “Ju-On”, oltre che nell’occidentale “Final destination”), ancor di più in questo remake (al solo scopo, per stessa ammissione del suo sceneggiatore, di avvicinare il pubblico occidentale a tematiche prettamente orientali) non si trova una ragion d’essere se non la “commerciabilità” fine a sé stessa (non è un caso che sia uscito a ridosso delle festività natalizie, qui da noi nel periodo caldo dove la gente non va’ al cinema o se lo fa non bada a quel che vede).

Molto spesso “Chiamata senza risposta” si trova a fare il verso ai cari b-movie (la scena ambientata nella chiesa raggiunge, e probabilmente supera, vette di comicità inattese), risultando privo di momenti di tensione (l’unico brivido possibile è quello che si prova pensando al tempo e ai soldi spesi per vedere il film) e arricchito da pessimi effetti digitali.

Di fronte ad orrori (badate bene, non horror) come questo parlarne male è fin troppo semplice, ma fare altrimenti sarebbe stato impossibile.

L’unico elemento degno di nota è la suoneria che segna il destino dei poveri sfortunati, il che la dice lunga.

Cameo non accreditato per la lynchiana Laura Harring (è la madre di Beth).

Da dimenticare.



Recensione a cura di Svengali

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