Regia: Shane Meadows
Sceneggiatura: Shane Meadows, Paddy Considine
Cast: Paddy Considine, Gary Stretch, Toby Kebell
Secondo film di Shane Meadows, autore inglese semi sconosciuto nel nostro paese.
Ingiustamente trascurato dalle leggi del marketing.
Richard, dopo anni trascorsi a servire l’esercito di sua maestà, torna a casa e scopre che il fratello è stato violentato da un branco di uomini senza scrupoli, privi di dignità.
Inizia allora la sua vendetta.
Un autore non molto prolifico Shane Meadows, ma ogni qualvolta si imbarca in un nuovo progetto riesce sempre a colpire nel segno.
Ogni sua opera si rivela come un pugno nello stomaco, evita infatti giri di parole e elucubrazioni varie, presentando la -triste- realtà ai nostri occhi di inermi spettatori, che non possiamo fare altro che limitarci ad osservare (e riflettere).
E’ il caso anche di “Dead man’s shoes”, storia di una torbida vendetta il cui compimento non lascerà alcun sapore dolce al povero Richard.
Meadows affronta il tema sopra citato utilizzando un soggetto poco convenzionale (basato su un numero esiguo di pagine, sono molte le improvvisazioni da parte degli attori) messo tuttavia in scena in maniera perfetta, alternando differenze cromatiche per le sequenze ambientate nel passato e quelle nel presente (il film è tutto girato in 16 mm), al punto tale da riuscire a far scorrere il tutto in maniera fluida e senza intoppi.
La peculiarità della pellicola è riscontrabile anche nella perfetta commistione di generi che la rendono differente dal classico revenge movie, largamente abusato e ricco di cliché, alternando sapientemente scene cruente, forti, ad altre di una dolcezza infinita.
Un po’ Rambo, tuttavia meno caciarone e più "umano" del suo predecessore d'oltreoceano, e un po’ angelo vendicatore, bestia senza scrupoli che non si ferma davanti a nulla, l'(anti)eroe è interpretato magistralmente da Paddy Considine (che con un altro film di Meadows, “A room for Romeo Brass”, aveva esordito), a cui bastano pochissime parole (ma moltissimi sguardi) per dare animo ad un personaggio grigio, costretto dai sensi di colpa per aver abbandonato il fratello alla mercé di una vita difficile, ancor più quando si è afflitti da un qualche handicap.
Non ci sono vie di mezzo, si passa da un'emozione a quella opposta in un breve lasso di tempo.
L'istinto, l'irruenza e la caparbietà fanno da traino (e ne sono contemporaneamente il fulcro) per l’intera storia.
Una vendetta servita fredda, lenta, un conto alla rovescia che porta ciascuno degli aguzzini a rivivere le sevizie fatte sul povero Anthony prima di perire per mano di Richard, un po’ come succedeva alla vedova nera di Truffaut (“La sposa in nero”), con l’auspicio che tutto ciò possa alleviare i suoi sensi di colpa, alternando i suoi due lati, quello umano e quello sadico, violento (e le sequenza con la maschera anti-gas sono già di culto).
Il cancro che si porta dentro lo spinge ad uccidere, ma non è un palliativo per il raggiungimento di un senso di pace che tarda ad arrivare e che probabilmente mai arriverà, se non compiendo gesti estremi, quanto meno lo aiuta a tenere a bada il dolore.
Punta il dito contro lo squallido perbenismo e l’indifferenza della periferia inglese Shane Meadows (le Midlands sono lo sfondo di una sua ipotetica trilogia, iniziata con “A room for Romeo Brass”, proseguita con “Once upon a time in the Midlands” e conclusasi proprio con questa pellicola), dove tutto è ancor più lecito che altrove, dallo spaccio di droga alle violenze sui disabili, e dove l’unica speranza è la rassegnazione (o la fuga).
A fare da contorno al tutto troviamo le belle musiche country-alternative e una splendida campagna inglese che avvolgono in un'aura magica la tragica vicenda, oltre alla fotografia di Daniel Cohen.
Presentato a Venezia ed inedito in Italia, sarebbe un bene riscoprire questo piccolo cult, che probabilmente mai vedremo qui da noi.
Recensione a cura di Svengali
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