Sceneggiatura: Andrew Birkin, Jean Jacques Annaud
Cast: Sean Connery, Christian Slater, Ron Perlman, Frank Murray Abraham, Michael Lonsdale
Anno di produzione: 1986
Una serie di misteriosi omicidi sconvolge un’abbazia cluniacense nell’Italia settentrionale e frate Guglielmo (Sean Connery) e il suo novizio Adso (Christian Slater) sono incaricati di far luce sulla vicenda.
Ennesimo esempio di come Jean Jacques Annaud si dilunghi più del necessario e riesca a trasformare quello che avrebbe potuto essere un ottimo film in una mezza delusione, ma partiamo dal principio: “Il nome della rosa” trae origine dall’omonimo libro di Umberto Eco (edito nel 1980, ndr.), ma diversamente dal suo omonimo, Annaud pone subito in luce la principale caratteristica di frate Guglielmo: acume e forte spirito d’osservazione.
I dialoghi (la sceneggiatura è dello stesso Annaud) sono inverosimilmente prosaici, forse l’intento era quello di fornire un maggior realismo e una maggiore “partecipazione” storica, tuttavia il risultato è quello di annoiare lo spettatore, che viene introdotto anzi tempo alla fase REM.
Bravo, come suo solito, Sean Connery, che regge il film sulle sue spalle, insieme al grottesco personaggio, Salvatore, interpretato da Ron Perlman, che con poche, fugaci apparizioni sullo schermo riesce a catalizzare su di sé l’attenzione e all’altro grande “bravo”, Frank Murray Abraham, che offre una partecipata interpretazione dell’inquisitore Bernardo Gui, cinico e spietato.
Il resto del cast si perde nella mediocrità, ad eccezione dell’allora giovane Christian Slater, incapace di risultare espressivo per tutta la pellicola (pur tuttavia merita discorso a parte, in quanto la sua carriera non è costellata da grossi successi).
Il film si perde nei meandri della sceneggiatura, andando a concentrarsi maggiormente su aspetti secondari e i 130 minuti sono un duro macigno da trasportare fino alla fine.
Coinvolgente invece a livello di fotografia, merito del lavoro compiuto da Tonino Delli Colli (“C’era una volta in America” e “Il buono, il brutto, il cattivo”), che caratterizza le immagini virandole su toni spenti con variazioni cromatiche che si alternano tra il rosso e il marrone, creando una tetra atmosfera (non per niente tra i maggiori pregi del film).
L’indagine di Guglielmo è svolta con il solo ricorso al metodo scientifico, abbandonando completamente la fiducia in Dio e nella fede (è questo il punto di massimo contatto tra libro e pellicola).
Precursore dei tempi, Guglielmo riesce a fornire una spiegazione razionale per ogni evento che lo circonda (al contrario di quanto giunge ad affermare la tediosa voce narrante).
Il sapere prevale sulla fede, e la dicotomica diatriba tra lo stesso e Bernardo Gui è conclusa ancor prima che giungano i titoli di coda.
Finale “consolatorio”, con i “cattivi” sconfitti e i buoni salvi per miracolo, alquanto deludente, soprattutto se si tiene conto del tono mantenuto fino a quel momento.
Alcune sviste marginali, come la scelta di far parlare gli attori in latino in determinate situazioni e il casting per niente azzeccato (impensabile che un monaco italiano del XIV secolo possa avere le sembianze di uno svedese di mezza età), pesano sul giudizio finale.
Le scenografie, di ottima fattura, sono dell’italiano Dante Ferretti (oscar per “The aviator” e David di Donatello per il film in questione), le musiche di James Horner (due oscar per “Titanic”) e i costumi dell’altra italiana, Gabriella Pescucci (oscar per “L’età dell’innocenza” e David di Donatello proprio per la pellicola di Annaud), insomma vien da chiedersi come mai, nonostante i numerosi nomi altisonanti, sia tra gli attori che tra gli addetti alla produzione, il tutto risulti eccessivamente lento, quasi a confermare l’antico detto, e qui è il caso di dirlo, che l’abito non faccia il monaco.
Riflessivo, anche troppo.
Cast: Sean Connery, Christian Slater, Ron Perlman, Frank Murray Abraham, Michael Lonsdale
Anno di produzione: 1986
Una serie di misteriosi omicidi sconvolge un’abbazia cluniacense nell’Italia settentrionale e frate Guglielmo (Sean Connery) e il suo novizio Adso (Christian Slater) sono incaricati di far luce sulla vicenda.
Ennesimo esempio di come Jean Jacques Annaud si dilunghi più del necessario e riesca a trasformare quello che avrebbe potuto essere un ottimo film in una mezza delusione, ma partiamo dal principio: “Il nome della rosa” trae origine dall’omonimo libro di Umberto Eco (edito nel 1980, ndr.), ma diversamente dal suo omonimo, Annaud pone subito in luce la principale caratteristica di frate Guglielmo: acume e forte spirito d’osservazione.
I dialoghi (la sceneggiatura è dello stesso Annaud) sono inverosimilmente prosaici, forse l’intento era quello di fornire un maggior realismo e una maggiore “partecipazione” storica, tuttavia il risultato è quello di annoiare lo spettatore, che viene introdotto anzi tempo alla fase REM.
Bravo, come suo solito, Sean Connery, che regge il film sulle sue spalle, insieme al grottesco personaggio, Salvatore, interpretato da Ron Perlman, che con poche, fugaci apparizioni sullo schermo riesce a catalizzare su di sé l’attenzione e all’altro grande “bravo”, Frank Murray Abraham, che offre una partecipata interpretazione dell’inquisitore Bernardo Gui, cinico e spietato.
Il resto del cast si perde nella mediocrità, ad eccezione dell’allora giovane Christian Slater, incapace di risultare espressivo per tutta la pellicola (pur tuttavia merita discorso a parte, in quanto la sua carriera non è costellata da grossi successi).
Il film si perde nei meandri della sceneggiatura, andando a concentrarsi maggiormente su aspetti secondari e i 130 minuti sono un duro macigno da trasportare fino alla fine.
Coinvolgente invece a livello di fotografia, merito del lavoro compiuto da Tonino Delli Colli (“C’era una volta in America” e “Il buono, il brutto, il cattivo”), che caratterizza le immagini virandole su toni spenti con variazioni cromatiche che si alternano tra il rosso e il marrone, creando una tetra atmosfera (non per niente tra i maggiori pregi del film).
L’indagine di Guglielmo è svolta con il solo ricorso al metodo scientifico, abbandonando completamente la fiducia in Dio e nella fede (è questo il punto di massimo contatto tra libro e pellicola).
Precursore dei tempi, Guglielmo riesce a fornire una spiegazione razionale per ogni evento che lo circonda (al contrario di quanto giunge ad affermare la tediosa voce narrante).
Il sapere prevale sulla fede, e la dicotomica diatriba tra lo stesso e Bernardo Gui è conclusa ancor prima che giungano i titoli di coda.
Finale “consolatorio”, con i “cattivi” sconfitti e i buoni salvi per miracolo, alquanto deludente, soprattutto se si tiene conto del tono mantenuto fino a quel momento.
Alcune sviste marginali, come la scelta di far parlare gli attori in latino in determinate situazioni e il casting per niente azzeccato (impensabile che un monaco italiano del XIV secolo possa avere le sembianze di uno svedese di mezza età), pesano sul giudizio finale.
Le scenografie, di ottima fattura, sono dell’italiano Dante Ferretti (oscar per “The aviator” e David di Donatello per il film in questione), le musiche di James Horner (due oscar per “Titanic”) e i costumi dell’altra italiana, Gabriella Pescucci (oscar per “L’età dell’innocenza” e David di Donatello proprio per la pellicola di Annaud), insomma vien da chiedersi come mai, nonostante i numerosi nomi altisonanti, sia tra gli attori che tra gli addetti alla produzione, il tutto risulti eccessivamente lento, quasi a confermare l’antico detto, e qui è il caso di dirlo, che l’abito non faccia il monaco.
Riflessivo, anche troppo.
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