Cast: Bruce Willis, Madelaine Stowe, Brad Pitt, Christopher Plummer
Anno di produzione: 1995
Sin dal principio, “L’esercito delle 12 scimmie”, si rivela un prodotto particolare, sin dai vorticosi titoli di testa che vedono delle scimmie tenersi per mano in una incessante spirale e in sottofondo un ritmico suono angosciante e ipnotico.
Lo spunto per il film è venuto a Gilliam in seguito alla visione di “La Jetée” (allucinata opera diretta da Chris Marker nel 1966 in cui dei sopravvissuti alla terza guerra mondiale cercano un sistema per viaggiare nel tempo ed evitare lo scoppio della guerra), amplificandone tuttavia il potenziale visionario e la simbologia in esso contenuti.
Nel riadattamento sono gli animali a regnare sovrani sulla superficie terrestre, l’uomo ha perso infatti la capacità di controllare le sue azioni, ha perso la possibilità di vivere nel mondo di sopra ed è costretto a vivere nel sottofondo.
Il futuro presentato da Peoples, Gilliam e Beecroft, rispettivamente sceneggiatore, regista e scenografo del film, è quanto di più distante possa esistere dai classici canoni della fantascienza, avvicinandosi nell’aspetto (e nei “contenuti”) maggiormente ad un Orwelliano ”1984” (libro caro a Gilliam, che ne aveva precedentemente proposto le tematiche in “Brazil”) che ad un “Blade Runner” o un “2001” qualsiasi.
Il film si regge interamente su Willis, partecipazione “sentita” la sua, che appare sempre allucinato e fuori dagli schemi, e su Pitt, la cui prova è purtroppo minata da un doppiaggio non eccelso, sulla sufficienza la Stowe, che non brilla certo di luce propria.
L’ambiguità che fa da sfondo all’allucinato lavoro di Gilliam esce fuori nella rappresentazione del manicomio, che scimmiotta in un certo senso la rappresentazione fornitane da Forman nel suo “Qualcuno volò sul nido del cuculo” e i suoi stereotipi, ponendo un quesito a cui neanche la conclusione dell’opera sa dare risposta: sono le persone rinchiuse nel manicomio ad esser folli o lo sono tutte le persone che popolano il mondo “esterno”?
La storia ruota, sostanzialmente, proprio intorno a questo concetto, quasi come se si trattasse di un’allucinazione.
La trama si evolve tra i deliri di James Cole (Willis), le paranoie di Jeffrey Goines (Pitt) e l’incredulità della dottoressa Railly (Stowe).
L’eccentricità del regista non tarda a venir fuori (come in quasi tutti i suoi film), viene a crearsi un’alternanza tra elementi grotteschi e comici, con brevi “siparietti” sopra le righe che catapultano lo spettatore, (in)volontario osservatore/custode della verità (il finale ci viene anticipato nell’incipit), in un’alienata realtà alternativa fatta di suoni, luci e colori conformi ai nostri in quanto all’aspetto, ma dalla peculiarità completamente differenti.
E’ tuttavia lasciato allo spettatore il compito di decifrare i segni lasciati nel corso della pellicola per ottenere una spiegazione dalla parvenza quanto meno razionale.
L’alternarsi in modo frenetico tra passato, presente e futuro arriva purtroppo a confondere lo spettatore, che ad una prima visione potrebbe, anzi è quasi certo, trovarsi spaesato.
Lo spunto per il film è venuto a Gilliam in seguito alla visione di “La Jetée” (allucinata opera diretta da Chris Marker nel 1966 in cui dei sopravvissuti alla terza guerra mondiale cercano un sistema per viaggiare nel tempo ed evitare lo scoppio della guerra), amplificandone tuttavia il potenziale visionario e la simbologia in esso contenuti.
Nel riadattamento sono gli animali a regnare sovrani sulla superficie terrestre, l’uomo ha perso infatti la capacità di controllare le sue azioni, ha perso la possibilità di vivere nel mondo di sopra ed è costretto a vivere nel sottofondo.
Il futuro presentato da Peoples, Gilliam e Beecroft, rispettivamente sceneggiatore, regista e scenografo del film, è quanto di più distante possa esistere dai classici canoni della fantascienza, avvicinandosi nell’aspetto (e nei “contenuti”) maggiormente ad un Orwelliano ”1984” (libro caro a Gilliam, che ne aveva precedentemente proposto le tematiche in “Brazil”) che ad un “Blade Runner” o un “2001” qualsiasi.
Il film si regge interamente su Willis, partecipazione “sentita” la sua, che appare sempre allucinato e fuori dagli schemi, e su Pitt, la cui prova è purtroppo minata da un doppiaggio non eccelso, sulla sufficienza la Stowe, che non brilla certo di luce propria.
L’ambiguità che fa da sfondo all’allucinato lavoro di Gilliam esce fuori nella rappresentazione del manicomio, che scimmiotta in un certo senso la rappresentazione fornitane da Forman nel suo “Qualcuno volò sul nido del cuculo” e i suoi stereotipi, ponendo un quesito a cui neanche la conclusione dell’opera sa dare risposta: sono le persone rinchiuse nel manicomio ad esser folli o lo sono tutte le persone che popolano il mondo “esterno”?
La storia ruota, sostanzialmente, proprio intorno a questo concetto, quasi come se si trattasse di un’allucinazione.
La trama si evolve tra i deliri di James Cole (Willis), le paranoie di Jeffrey Goines (Pitt) e l’incredulità della dottoressa Railly (Stowe).
L’eccentricità del regista non tarda a venir fuori (come in quasi tutti i suoi film), viene a crearsi un’alternanza tra elementi grotteschi e comici, con brevi “siparietti” sopra le righe che catapultano lo spettatore, (in)volontario osservatore/custode della verità (il finale ci viene anticipato nell’incipit), in un’alienata realtà alternativa fatta di suoni, luci e colori conformi ai nostri in quanto all’aspetto, ma dalla peculiarità completamente differenti.
E’ tuttavia lasciato allo spettatore il compito di decifrare i segni lasciati nel corso della pellicola per ottenere una spiegazione dalla parvenza quanto meno razionale.
L’alternarsi in modo frenetico tra passato, presente e futuro arriva purtroppo a confondere lo spettatore, che ad una prima visione potrebbe, anzi è quasi certo, trovarsi spaesato.
E’ questo l’unico difetto imputabile alla pellicola, ma a ben vedere è anche il suo maggior punto di forza (allo stesso espediente narrativo, seppur con risultati qualitativamente inferiori, ha fatto ricorso Richard Kelly nel suo “Donnie Darko”).
Il finale, in un certo senso aperto, lascia adito a diverse interpretazioni.
Il finale, in un certo senso aperto, lascia adito a diverse interpretazioni.
La cupa e sterile fotografia è opera di Roger Pratt, mentre la colonna sonora, caratterizzata, oltre che da brevi motivi, da un unico lungo brano che si ripete ad intervalli regolari, con sonorità ipnotiche, per tutti i 130 minuti, è opera di Paul Buckmaster.
Atemporale.
Atemporale.
Recensione a cura di Svengali
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