31.3.08

Recensione: Il cacciatore di aquiloni

Regia: Marc Forster Sceneggiatura: David Benioff Cast: Zecheria Ebrahimi, Atossa Leoni, Ahmad Khan Mahmidzada, Khalid Abdalla, Shaun Toub

Il tanto atteso adattamento cinematografico del best seller dello scrittore Khlaed Hosseini

Afghanistan, Kabul, 1978.
Nonostante il paese sia povero e le possibilità di una vita discretamente agiata siano molto basse, le persone riescono a divertirsi, c’è anche spazio per gli aquiloni nel cielo che sovrasta l’arida terra afghana, per l’amicizia tra due bambini provenienti da due estrazioni socio-culturali agli antipodi, ma accomunati dalla passione per quel “foglio volante”, capace di annullare tutte le differenze e renderli entrambi liberi, l’uno dal senso di oppressione per la sua condizione di servo e di appartenente ad un’etnia “minore” (quella Hazara), l’altro da un padre che vorrebbe ben altro da suo figlio e non che facesse lo scrittore e sognasse ad occhi aperti.
Amir e Hassan crescono insieme e insieme si affacciano alla vita.
Anche nelle migliori amicizie ci sono però gli imprevisti, durante la gara degli aquiloni (sequenza bellissima a livello di coreografie ed emozionante per come è stata messa in scena, pare quasi di assistere ad un duello aereo) Hassan vie
ne stuprato da tre ragazzi più grandi, fieri di appartenere al ceppo Pashtuni e che non vedono di buon occhio il piccolo Hazara, soprattutto per il suo “vizio” di difendere sempre l’amico/padrone.
Amir è testimone (in)volontario dell’accaduto, ma non fa’ nulla per salvare il suo amico, anzi fa’ di tutto, dilaniato dai sensi di colpa, per mandarlo via da casa.

Afghanistan, Kabul, 26 Dicembre 1979.
I Russi invadono l’Afghanistan, Amir e suo padre (da sempre schierato contro
i comunisti) fuggono prima in Pakistan e poi in America.
Durante il viaggio c’è anche il tempo perché il padre insegni al figlio fondamenti di filosofia e l’arte della recitazione.

Stati Uniti, California, 1988.
Amir è cresciuto, vive tra gli stereotipi, i luoghi comuni e l’espressività da lastra di marmo dell’attore che lo interpreta, in un’America ancora lontana dalle paure post 11 Settembre, ovviamente all’interno di una comunità di immigrati afghani.
Sogna di fare lo scrittore, ma nessuno vede la cosa di buon occhio.
Suo padre è invecchiato e sta mol
to male, lui si innamora della figlia del cattivo generale nazionalista (ovviamente anche lui/lei afghano/a), ma alla fine la forza dell’amore trionfa e riesce a sposarla.
Il padre muore poco dopo.

(30 minuti di discorsi prosaici)

Stati Uniti, San Francisco, 2000 / Afghanistan, Kabul, 2000.
Amir, divenuto ora uno scrittore di successo (?), riceve un’inattesa telefonata che lo riporta a tempi andati.
Gli viene chiesto di tornare alla sua terra natia, si mette allora in viaggio per raggiungere un’Afghanistan stravolto dai russi prima e dal governo Talebano poi.
Non ci sono più aquiloni in cielo, a dire il vero non ci sono quasi più neanche case, solo deserto e devastazione a perdita d’occhio.
Amir deve trovare il figlio di Hassan (passato a miglior vita) per poterlo portare con sé in America.
Dopo 40 minuti (di pellicola) lui e il suo autista (già visto in “Three Kings” e ne “L’odio”) raggiungono prima lo stadio di Kabul (dove è in corso una partita
di calcio/lapidazione) e poi la fortezza Talebana nel deserto (una sorta di morte nera però adagiata al suolo, ed edificata in muratura).
Amir incontra la sua nemesi (il ragazzo che da giovane aveva stuprato Hassan) asceso al ruolo di leader (o qualcosa di simile) e c’è il tempo perché si faccia pestare a sangue, ma ancora una volta è Hassan (2, il ritorno) a salvarlo, grazie alla magica fionda (ennesimo scontro tra Davide e Golia).
Riescono a fuggire, le truppe imperiali (pardon, i soldati talebani) li inseguono, ma non c’è nulla da fare.
Fanno ritorno in America.

(Fine del film)

E invece no, la pellicola prosegue per altri 15 minuti, Amir dimostra di essere un uomo (stanco probabilmente di essere difeso dagli altri) alla soglia dei quarant’anni, rispondendo per le rime al generale “kattivo”.
La neonata famiglia va’ nel parco a giocare con gli aquiloni, Amir è ancora inespressivo, arrivano i titoli di coda.

(Ecco, ora è finito...Grazie a Dio)

Ad una primo tempo incantevole, perfetto (bravissimi i due bambini protagonisti, soprattutto il giovane Hassan, intenso ed emozionante, capace di far sorridere ogni volta che si illumina in volto e rattristare quando si erge, privo di ogni speranza, unico baluardo contro i so
prusi che lui e il suo amico sono costretti a subire), corrisponde un secondo tempo noioso (dal 1988 in poi, tanto per intenderci), una “confettura” di stereotipi, in cui tutto risulta prevedibile e scontato finanche mezz’ora prima che accada.
Si arriva al finale saturi per i 120 e oltre minuti di pellicola, con una conclusione nel segno del buonismo assoluto.
Le musiche di Alberto Iglesias poi risultano oltre modo fastidiose (tra le altre cose non condivido la scelta di sonorità tipicamente arabe accostate a canzoni in inglese, quasi a snaturare un’intera cultura).
Marc Forster (“Neverland”, “Monster’s ball”) e Davi Benioff (“La 25a ora”, “Troy”) confezionano una pellicola dagli incassi pressoché assicurati (forte del successo mondiale del libro di Khaled Hosseini), ma non vanno tanto per il sottile quando si tratta di accontentare anche chi vorrebbe vedere del buon cinema e non solo una serie di luoghi comuni.
Una buona (ghiotta) occasione sfruttata male, molto male.
Non lasciate che anche il film, oltre agli aquiloni, voli al box office, ci sono opere migliori in sala.
Per fortuna.


Una recensione a cura di Svengali


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