25.5.08

Recensione: Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo

Regia: Steven Spielberg
Sceneggiatura: David Koepp
Cast: Harrison Ford, Cate Blanchett, Shia LaBeouf, Karen Allen, Ray Winstone, John Hurt

A distanza di quasi venti anni dall’ultima crociata, ritorna l’archeologo più famoso di tutti i tempi.



Nevada, 1957.
Caduto prigioniero dei Russi, Indiana Jones (Ford) riesce miracolosamente a fuggire, ma perde la sua cattedra al Marshall College per via degli innumerevoli danni causati durante la sua fuga.
Proprio quando sta per lasciare definitivamente l’America viene fermato da un temerario giovanotto, Mutt Williams (LeBeouf), che lo trasporta quasi con la forza in una nuova avventura, la ricerca del teschio di cristallo, appartenuto ad un’antica divinità Maya, da riportare nella perduta città di Akator, meglio conosciuta come El Dorado.
Ma sulle tracce del teschio di cristallo ci sono anche i Russi e la temibile Irina Spalko (Blanchett), pupilla del “compagno” Stalin e capo del dipartimento di ricerca paranormale del cremlino.
Il fedora è lo stesso di sempre, forse la giacca è leggermente più consunta, la camicia ingiallita e i pantaloni sbiaditi, ma Henry Jones Jr., Indiana per gli amici (e per i nemici), è sempre lo stesso.
Anche a distanza di vent’anni, anche dopo averne viste di cotte e di crude è pronto a gettarsi a testa bassa nell’ennesima avventura, anche a costa della vita, avido di conoscenza, senza pensare al suo (vero) lavoro, quello di docente, spesso trascurato.
Questa quarta avventura dell’archeologo per antonomasia inizia col botto (tutto il prologo è gestito meravigliosamente, con una bellissima sequenza altamente coreografica) e prosegue allo stesso livello per tutta il rimanente, senza mai un calo o scelte fuori luogo.
La sceneggiatura scritta da Koepp ricalca alla perfezione lo spirito della serie, dalle trovate machiste-maschiliste del nostro, ai dialoghi serrati, veloci e pregni di humour che hanno scandito i precedenti film e segnato la memoria (cinefila) di milioni di appassionati, passando per le trovate nonsense che sono uno dei marchi della serie (basti pensare al modo in cui ne “I predatori dell’arca perduta” Indy [concedetemelo] fredda il “temibile” spadaccino, tanto per farsi un’idea) oltre che il clima degli anni ’50, tra la paura per i “Rossi”, l’esasperante Maccartismo (“Il governo ci fa vedere i comunisti persino nella minestra”), la guerra fredda (“Quando l’isterismo arriva agli accademici è giunta l’ora di ritirarsi”), le risse da pub tra ragazzi impomatati e rudi giocatori di football.
Coadiuva il tutto la fotografia di Janusz Kaminski (collaboratore di Spielberg ormai dai tempi di “Schindler’s list), dal tocco glamour, patinato, mai troppo saturo (tranne nella parte centrale) che rispecchia fedelmente il climax di quel periodo.
Gli anni di differenza sulle spalle si sentono e come, non solo nel fisico, ma anche nell’interpretazione, nel metodo con cui Ford da nuovamente corpo al personaggio che più lo ha reso famoso, dopo l’Henry Ducard di “Blade Runner” e l’Han Solo di “Star Wars” (nonostante le peripezie al limite dell’incredibile e gli aiuti, corposi, della CGI), nel relazionarsi in maniera uguale (ma con differenti risultati) agli eventi.
E l’eroe per antonomasia può contare oltre che sulla Marion Ravenwood di mille avventure (convincente come la prima volta vista sullo schermo) anche sul figlio di lei, Mutt Williams (scritto come gli pare), un convincente Shia LeBeouf (“Transformers”), che nel suo ingresso in scena parafrasa il selvaggio Marlon Brando nell’omonimo film di Benedek.
Chi temeva che con questo nuovo capitolo si fosse perso il feeling con il senso di avventura e di mistero caratteristico della trilogia “originale” può sicuramente tirare un sospiro di sollievo, il clima goliardico e sprezzante è quello di sempre, la formula usata è la stessa che per i precedenti, cambiano solo gli elementi cardine, l’arca dell’alleanza è stata sostituita dai teschi di cristallo, passando per la pietra sacra a Shiva e il sacro Graal, dai nazisti (storici antagonisti) si è giunti ai Russi (sarebbe stato ucronico pretendere un Terzo Reich nel 1957), “guidati” dalla bravissima Cate Blanchett (ma è un caso più unico che raro vederla in un pessima interpretazione).
Spielberg fa una summa dei film precedenti e di tutte le tematiche a lui care, dalla paura per l’ignoto al senso di isolamento in primis (chiave di volta dei recenti “Munich” e “La guerra dei mondi”), dirigendo con maestria un quarto, indimenticabile, capitolo, sicuramente allo stesso livello dei tre precedenti.
I due unici “difetti” imputabili alla pellicola sono il doppiaggio di Cate Blanchett (a tratti la voce pare quella del viulento Diego Abatantuono) e una pessima caratterizzazione del personaggio interpretato da Ray Winstone (“Beowulf”), misera macchietta tra il titanico Jones e la glaciale Spalko.
Il mio invito è quello di andare a vedere il film al cinema, tralasciando le male voci che gridano allo scandalo e al b-movie (probabilmente si aspettavano un elogio a Ray Harryhausen e a Rob Bottin, con tanto di animazioni in stop motion e scenografie fatiscenti), vi vogliono solo male.
Leggenda.


Recensione a cura di Svengali

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