Per evitare una macchina che ha invaso la sua corsia, sbanda e travolge un ragazzo che sostava sul ciglio della strada, atterrito fugge via.
Ethan è l’unico testimone della vicenda e stanco di attendere che la polizia faccia qualcosa, decide di ottenere giustizia da solo, non pensando però alle conseguenze del gesto.
Dopo la vera storia di Paul Rusesabagina raccontata in “Hotel Rwanda”, Terry George trasporta su schermo la verosimile storia di Ethan Learner e Dwight Arno, tratta dall’omonimo romanzo

di John Burnham Schwartz (che con George ha collaborato alla stesura della sceneggiatura), con risultati buoni, ma meno soddisfacenti di quelli ottenuti con la precedente pellicola.
Da una lato una sceneggiatura troppo carica di intensità drammatica al punto da risultare fin troppo fredda e cinica, dall’altro due attori protagonisti bravissimi, ma solo uno per tempo, nella prima parte convince maggiormente Phoenix, nella seconda, al contrario, è Mark Ruffalo a rubargli la scena, fino al crescendo finale, in cui tra la mimica e la voce roca (ovviamente da ascoltare in originale) da forte credibilità al personaggio.
Sicuramente è interessante l’idea di imprimere su pellicola un tema molto spesso destinato alla narrazione cartacea o ai drammi teatrali, ossia raccontare i due lati di una stessa medaglia, l’amaro dramma di chi è costretto a vivere col rimorso per il male commesso e chi invece è affranto dal dolore per la perdita subita e, in un modo o nell’altro, vuole che sia fatta giustizia.
Recentemente anche Lumet si era confrontato con gli stessi temi in “Onora il padre e la madre” e guardando un po’ più indietro, anche Inarritu in “Babel” (il dolore condiviso è al centro dell’intera opera “corale”) e Todd Field in “In the bedroom” hanno portato sullo schermo tragedie d’ampio respiro, convergenti nel dolore e nella sete di vendetta a tutti i costi.
Ciò che differenzia, in parte, “Reservation road” dai precedenti del genere è l’essere ambientato in un

a modesta comunità, in cui tutti sanno tutto di tutti (o quasi) e in cui è impossibile non conoscere il proprio vicino, soprattutto quando questo è l’uomo che ti ha portato via tuo figlio.
Lentamente i pezzi del torbido puzzle vanno al loro posto e il finale, cupo e mesto, non lascia adito ad alcuna libera interpretazione, tutto va esattamente come dovrebbe andare.
Come detto in precedenza nella prima parte l’interpretazione affranta di Phoenix è più congeniale alla sceneggiatura, mentre nella seconda sono il calore e la passione trasposta nella figura di Dwight a catalizzare sul bravo Ruffalo le attenzioni, il resto del cast, dall’inespressiva Connelly (persa ancora una volta nei ricordi della Marion Silver di “Requiem for a dream”) al duo Elle Fanning (sorella minore della più famosa Dakota) e Mira Sorvino (“The final cut”), non fa testo, viene adombrato dal dolore dei due padri/protagonisti.
Terry George (che ricordiamo è anche sceneggiatore dell’ottimo “Nel nome del padre” di Jim Sheridan) realizza un valido film, forse al di sotto delle aspettative (il peso delle stesse a volte è insostenibile), ma comunque degno di attenzioni.
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